lunedì 23 giugno 2025
L'operazione Martello di Mezzanotte potrebbe sortire l'effetto di un parziale raffreddamento della crisi. L'Iran resta isolato, le reazioni di Cina e Russia sono formali. E adesso?
Una statuetta di Trump punta il dito sull'Iran e lo Stretto di Hormuz, che ora Teheran minaccia di chiudere come ritorsione all'attacco

Una statuetta di Trump punta il dito sull'Iran e lo Stretto di Hormuz, che ora Teheran minaccia di chiudere come ritorsione all'attacco - Reuters

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Bisogna guardare oltre la cortina fumogena delle dichiarazioni roboanti e apparentemente incoerenti di Donald Trump per capire che scenari apre l’operazione Martello di Mezzanotte, lanciata dagli Stati Uniti sull’Iran l’altra notte. La guerra in corso con Israele potrebbe essere infatti abbreviata dall’azione sui tre siti nucleari di Fordow, Natanz e Isfahan con armi di particolare potenza che solo gli Stati Uniti possiedono. Anche se questo non significa che sia stata una buona scelta né che abbia i crismi della legalità internazionale.

Non che le bombe ad alta penetrazione abbiano davvero distrutto tutti gli impianti per l’arricchimento dell’uranio – ci vorranno giorni per capirlo e non vi saranno certezze a lungo –, ma esse potrebbero innescare un processo che raffreddi la situazione pur senza portare alla pace piena. Secondo le intenzioni Usa, quello messo a segno è colpo “una tantum” e non preludio a un cambio di regime come vorrebbe Benjamin Netanyahu (anche se nelle ultime ore lo stesso presidente americano vi ha alluso in modo ambiguo).

I piani erano di distruggere le installazioni che l’Idf (le forze armate di Tel Aviv) non riuscivano a smantellare, senza però proseguire oltre. In questo modo il rischio di escalation sarebbe “gestibile” all’interno di un’operazione che analisti statunitensi definiscono “rischiosa ma necessaria, utile a ripristinare la deterrenza se rimane limitata”. Il risultato più probabile sarebbe quindi uno stop di almeno due anni al programma iraniano per un ordigno nucleare. Le conoscenze, infatti, non possono essere distrutte, malgrado le uccisioni mirate di prominenti scienziati, mentre una parte (limitata) dell’uranio già arricchito potrebbe essere nascosta altrove. Il rischio è tuttavia che Teheran voglia proseguire comunque e abbandoni l’Aiea (l’agenzia atomica dell’Onu).

Le probabilità di una guerra aperta rimangono basse, laddove le ritorsioni asimmetriche decise dai Pasdaran potrebbero concretizzarsi in attacchi a obiettivi Usa tramite gruppi alleati attivi in Iraq, Siria e Yemen, cyber-attacchi globali e tentativi di paralizzare (con mine o droni) lo Stretto di Hormuz, snodo marino chiave per le rotte dell’energia, oltre alla continuazione dei lanci di missili sullo Stato ebraico. Teheran sa di non poter vincere un conflitto convenzionale, e per il leader Ali Khamenei la vera “linea rossa” è data dalla percezione di un’offensiva tesa a rovesciare lui e il governo degli ayatollah. Peraltro, l’Iran resta piuttosto isolato, dato che la protesta formale di Russia, Cina e Turchia non porterà ad azioni concrete al di là dell’appoggio diplomatico, e il mondo musulmano non sembra mobilitarsi per la difesa dei vertici sciiti.

Tutto questo perché la mossa di Trump è giocata soprattutto per provare a ottenere una compartecipazione alla “vittoria” senza pagare un prezzo troppo alto, anche se la strategia non è risolutiva della crisi e lascia macerie che peseranno sul futuro, così come accadde con la decisione, assunta durante il suo primo mandato, di rompere l’intesa con l’Iran firmata dal predecessore Barack Obama.

Trump mostra alla sua opinione pubblica di poter chiudere il dossier nucleare iraniano in 25 minuti di bombardamenti ad alta precisione, senza avviare una lunga occupazione che la sua base MAGA detesta, anche se i sondaggi danno una maggioranza a favore del colpo alla Bomba iraniana. Mettere nel mirino bunker sotterranei a 10.000 km da casa resta compatibile con il “niente nuove interminabili guerre” proclamato dal tycoon, almeno finché non ci sono truppe schierate e il costo di vite pagate dall’America rimane fermo a zero.

Per questo l’opzione finale della Casa Bianca non appare improvvisata, bensì finalizzata a sostenere completamente le politiche difensive-aggressive del premier israeliano Netanyahu e al contempo a lasciare margini per la ripresa futura di negoziati, se non vi sarà una risposta particolarmente devastante da parte di Teheran. Saranno i prossimi giorni a dire quanto la discesa in campo degli Stati Uniti può condurre a pausa dei bombardamenti reciproci o se avrà un non voluto effetto moltiplicatore.

Rimane l’impressione, tuttavia, di una mancanza di piani chiari che vadano al di là dello strumento militare. Se si vuole davvero costruire un nuovo Medio Oriente stabilizzato e aperto alla convivenza fra tutti i suoi Paesi, serve qualcosa in più delle armi, come non si stanca di ripetere Papa Leone XIV.

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