Trump e l'America a contratto
venerdì 16 maggio 2025

Un uomo d’affari percorre a passo di carica l’area del Golfo Persico (o come già lo ha ribattezzato: il Golfo d’Arabia) munito di un’agenda sulla quale segnare puntigliosamente i buoni affari che va accumulando: di qua un satollo carico di armamenti, di là una provvigione sulla futura estrazione di terre rare, di qua 600 miliardi pagabili a vista dal leader saudita Mohammed bin Salman, di là un incontro di gala con un ex tagliagole del Daesh (appena sei mesi fa, Ahmad Al-Sharaa era un jihadista con sulla testa una taglia di 10 milioni di dollari), ora rimesso a nuovo e vestito da damerino occidentale, pronto ad accogliere le imprese americane intenzionate a investire nel petrolio e nel gas della Siria del post-Assad.
Indubbiamente dotato, questo uomo d’affari. Il suo tocco di Mida lo rende ad ogni giro di giostra sempre più ricco. Ma c’è un piccolo problema: quel tycoon dal ciuffo dorato è anche il presidente degli Stati Uniti. Già, un trionfante Donald d’Arabia, che vagheggia di innalzare una Trump Tower anche a Damasco a completare quel mosaico di giganteschi menhir che celebrano la sua potenza finanziaria a Honolulu come a New York, a Las Vegas come a Mumbai, a Manila, a Istanbul. Instancabile, Trump è poi volato a Doha per vendere ai qatariani aerei, tecnologia, armi. Un nuovo diluvio di dollari. In altre parole, siamo di fronte a una nuova dottrina americana, che antepone gli affari e gli accordi commerciali alla politica e alla diplomazia. Addio alle guerre preventive, ai “regime change” neocon cari a George W.Bush e teorizzati da Donald Rumsfeld e Dick Cheney, e soprattutto addio all’ “exporting democracy” come cavallo di battaglia della politica estera americana. La sola eliminazione di Saddam Hussein costò a Washington 700 miliardi di dollari e 4.400 caduti nelle forze armate americane. Per non dire della débâcle politica con il ritiro dall’Afghanistan. Errori da mai più ripetere.
Donald d’Arabia ha tutt’altra intenzione. La pace, sostiene, produce profitti. Non sappiamo se Trump abbia mai letto “La favola delle api”, il poema satirico di Bernard Mandeville, ma di fatto si comporta come quell’amarissimo apologo del 1705: sono i vizi dei privati, la loro brama e ingordigia a generare le virtù collettive. Qualcuno ha definito la nuova dottrina trumpiana «capitalismo clientelare». E sicuramente c’è del vero.
Ma è vero anche –va dato atto – che la foga di risolvere tutto con una serie di transazioni d’affari certi frutti li sta dando.
Gli Accordi di Abramo, per cominciare. Siglati cinque anni fa a Washington fra Israele, Emirati Arabi e Bahrein erano la prima pietra di quella Pax Americana perseguita non senza intoppi e interruzioni da Donald Trump durante il suo primo mandato, che prevedeva il riconoscimento di Israele da parte delle nazioni arabe che per mezzo secolo sono state ostili nei confronti dell’unica democrazia del Medio Oriente. Accordi che si sono congelati dopo l’assalto di Hamas del 7 settembre 2023. Il progetto tuttavia rimane, ed è un capovolgimento copernicano rispetto all’appeasement dell’amministrazione Obama: l’avvicinamento di Israele alle monarchie del Golfo è il più potente dei richiami per creare una rete sunnita (originariamente in funzione anti-iraniana) ed anche per fare affari.
E che qualcosa nella geografia del Medio Oriente sia profondamente cambiata è sotto gli occhi di tutti: dall’intesa imminente sul nucleare iraniano ai conciliaboli segreti con Hamas, dalla plateale messa in mora delle incontinenze di Netanyahu (Trump non ha creduto di fare tappa in Israele), fino al gioco di sponda con la Turchia di Erdogan. Tutto cambia, anche la presenza navale russa nella base siriana di Latakia, strappata a Bashar al-Assad in cambio della sua integrità fisica.
Anche i rapporti con Teheran beneficiano di un cambio di passo, ora che la Mezzaluna sciita – un corridoio che si stendeva da Teheran al Mar Mediterraneo passando per Baghdad, Deir ez-Zor, Palmira, Damasco, Latakia garantendo all’Iran una fascia di controllo che tagliava in due la vecchia carta geografica del Medio Oriente – non è che un ricordo, dopo le robuste punizioni inflitte da Israele a Hezbollah in Libano e in Siria e agli Houthi nello Yemen. «L’America non ha nemici permanenti – ha detto Trump a proposito dell’Iran –. Siamo vicini a un accordo sul nucleare, siamo in trattative molto serie per una pace a lungo termine». In cambio, si capisce, della revoca delle sanzioni a Teheran.
Un po’ è propaganda, un po’ c’è del vero. «Stiamo lavorando duramente a Gaza – aggiunge Trump –. Gaza è stata un territorio di morte e distruzione, ma gli Stati Uniti interverranno e diventerà una “zona di libertà”». Diventerà: per ora a Gaza continua uno scempio senza fine.
Ma gli affari reclamano: «Abbiamo qui i più grandi leader aziendali del mondo. Se ne andranno con un sacco di assegni», ha profetizzato Trump a Riad accompagnato dai Ceo di Lockheed Martin, Northrop Grumman, Halliburton, Nvidia, dal colosso di investimenti BlackRock. È il mondo nuovo, reclamano i corifei di The Donald. E pazienza se accettare un Air Force One come cadeau dal Qatar non è propriamente un gesto di eleganza etica: business is business, tutti lo sanno, Donald Trump per primo: un tempo liquidava il Qatar come «un finanziatore del terrorismo di alto profilo», oggi tiene la famiglia reale al-Thani in palmo di mano.
E mentre l’Arabia Saudita guadagna una centralità geopolitica che prima non possedeva, il conflitto russo-ucraino rischia di scivolare sullo sfondo: il patto sulle terre rare con Kiev Trump lo ha già messo in tasca. Il resto, visto l’allungarsi delle trattative, comincia a sembrargli una fastidiosa seccatura.

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