giovedì 5 maggio 2016
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Gentile direttore, il presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, Giorgio Vittadini, sul suo giornale chiama in causa i candidati sindaci a Milano e li sfida su una questione cruciale: una rivoluzione liberal-popolare che delimiti l’azione dell’amministrazione comunale al 'governo' della cosa pubblica e non alla sua 'gestione', lasciando campo in questo alle «iniziative operose di bene comune» presenti e vive nella società milanese. Accolgo la sfida partendo dalla mia esperienza, che si è divisa negli anni tra responsabilità nella pubblica amministrazione e nel privato. Nella pubblica amministrazione sia centrale, presidenza del Consiglio, sia periferica, Comune di Milano. Nel privato prima come manager di grandi aziende e poi come imprenditore. So che cosa vuol dire governare. So che cosa vuol dire gestire. E penso che un amministratore pubblico debba governare i meccanismi, le regole, le opportunità, le condizioni che permettono a chi ha la capacità di farlo di offrire servizi 'pubblici' gestendoli in prima persona. C’è stato, e purtroppo c’è ancora, in Italia una grande confusione (o un grande inganno) sul concetto di 'pubblico', considerato sinonimo di 'statale'. Ma siamo sicuri che l’accentramento nella mano pubblica dei servizi per i cittadini faccia veramente bene al pubblico? Rispondo con un esempio. Conosciamo il fenomeno delle nuove povertà, le file davanti alle mense che distribuiscono pasti. Lodevolmente il Comune di Milano si è fatto carico del problema, ma la soluzione che ha prospettato fa spendere molto i contribuenti a beneficio di pochi: la consegna dei pasti a domicilio costa 3 milioni di euro e raggiunge 1.380 persone. Gli enti di assistenza e carità cha già operano a Milano distribuiscono cibo a 56.000 poveri. 1.380 contro 56.000. Qual è il servizio più 'pubblico'? Un Comune che governa e non gestisce dimostrerebbe la sua vicinanza ai cittadini bisognosi favorendo, e controllando, queste opere e non sostituendosi a esse. Facile, diranno i lettori, fare questi esempi su un giornale cattolico parlando di carità e di assistenza. E allora parliamo di occupazione. Anzi del 'mercato' dell’occupazione. Io non ho un’idea demoniaca del mercato, ma so come è nato. Non nel mondo della finanza virtuale del XX secolo, ma nelle piazze delle nostre città nel Rinascimento. In piazza ci stanno i mercanti, ma la piazza (il mercato) non l’hanno fatto loro. L’ha fatta il principe, cioè la politica, che ha stabilito le regole per starci. Allora, mercato dell’occupazione vuol dire mettere in comunicazione opportunità di lavoro e giovani. Ci sono piattaforme pubbliche e private in cui si incontrano domanda e offerta, quelle private sono più efficienti, ma sono parcellizzate, bisogna invece che stiano tutte sullo stesso mercato, sulla stessa piazza. Il Comune può fare molto in questo senso: favorire la loro integrazione, incentivarla, creare le condizioni perché avvenga. Credo che sia questa una versione molto laica, ma molto realistica, di quello che si definisce bene comune. Vogliamo parlare di dispersione scolastica? Ho avuto modo di leggere la lettera di un preside di una scuola statale a un’associazione privata no profit che opera in questo campo. Niente nomi, non faccio pubblicità. Dice molto semplicemente questo preside: da quando lavoriamo insieme non abbiamo più dispersione scolastica, li mandiamo da voi. L’integrazione fra pubblico e privato è il nostro destino. Ma lo stesso vale per lo sviluppo urbano. È un fatto di cui Milano ha già fatto esperienza e di cui si vedono i frutti con la rigenerazione di Porta Nuova e con l’investimento in verde pubblico fatto in collaborazione con le associazioni presenti sul territorio (pescatori, bocciofila, cooperative sociali...) su cui doveva nascere il nuovo parco, basti l’esempio del Parco delle Cave. Quanto alla rivoluzione liberal-popolare, devo farle una confessione, direttore. Non è vero che non ho mai fatto politica, l’ho fatta, da studente, alla fine degli anni 70. Era una politica molto ideologizzata, ma la depurazione a cui ho sottoposto quell’esperienza non me ne ha fatto abbandonare gli ideali. Tra i tanti manifesti di quegli anni ne ricordo uno: ' Los hombres nacen para ser libres', gli uomini nascono per essere liberi. La maturità mi ha insegnato che quella che allora concepivo solo come 'libertà da' è molto più libera se è 'libertà di', quella libertà costruttiva che è la caratteristica del nostro Paese, che ha la sua vera ricchezza in una imprenditorialità diffusa, in una operosità popolare che noi politici dobbiamo servire e non imbrigliare. *Candidato sindaco di Milano per il centrodestra © RIPRODUZIONE RISERVATA L’ospite
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