venerdì 9 gennaio 2015
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Nel massacro di Parigi, e in quel che ne seguirà, sono almeno due i temi che s’intrecciano: quello della libertà di espressione e del suo significato per l’Europa e quello della violenza religiosamente motivata. In merito a quest’ultimo, sarebbe bello poter liquidare la carneficina di "Charlie Hebdo" come un gesto isolato di alcuni squilibrati. Sarebbe bello, ma non è realistico, perché l’islam contemporaneo ha un evidente problema con la violenza, verso i non musulmani e al proprio interno: Nigeria, Mali, Kenya, Somalia, Egitto, Siria, Iraq, Yemen, Afghanistan e Pakistan sono solo alcuni dei Paesi a forte presenza islamica che negli ultimi anni hanno conosciuto e conoscono anche in queste ore stragi di matrice jihadista. Se Parigi fa orrore, ricordiamoci di Peshawar, quando nemmeno un mese fa le maestre furono bruciate vive davanti ai loro allievi. O dei ricorrenti massacri perpetrati da Boko Haram in Nigeria, gli ultimi – terribili – proprio ieri. In diversi ambienti musulmani, fino a non molto tempo fa, si ricorreva spesso a una scorciatoia retorica per evitare di fare i conti con l’inquietante realtà del radicalismo violento: presentare queste azioni come una risposta, certo estrema ma in fondo legittima, a un’aggressione precedente. Da qui l’idea, tuttora molto diffusa in alcuni Paesi, che sia l’islam a essere sotto attacco, per cui il jihadista sarebbe un resistente o in alternativa un agente provocatore del nemico. Un giochino che peraltro non ha ancora perso completamente il suo fascino se il sito arabo di "al-Jazeera" apre oggi con la notizia di attacchi alle moschee di Francia e subito sotto qualifica "Charlie Hebdo" come giornale «stupido e provocatorio» avvertendo del pericolo di possibili strumentalizzazioni ai danni dei musulmani. Eppure questi tentativi autoassolutori appaiono sempre meno credibili. Prima di tutto per il ripetersi delle stragi a un ritmo sempre più ravvicinato. Se è vero che la violenza, una volta innescata, tende a riprodursi come un virus contagioso, si può purtroppo presumere che il fenomeno continuerà a crescere d’intensità, fino a raggiungere il parossismo di una crisi (ci siamo già arrivati? questa è la vera domanda), che dovrà per forza avviarsi a una soluzione. Del resto sono già oggi molti i musulmani che parlano apertamente di una crisi o, come ha fatto Ridwan al-Sayyid su "al-Sharq al-Awsat" del settembre scorso, di una malattia contagiosa, quella dell’estremismo, che l’Is e i suoi analoghi rendono manifesta. «La religione – osserva lucidamente il pensatore libanese – illudendosi di realizzare [per questa via] se stessa, viene assorbita dalla lotta per il potere, si parcellizza e collassa». La globalizzazione delle informazioni fa il resto, riduce i coni d’ombra e getta una luce impietosa sui nudi fatti, al limite della spettacolarizzazione. E tuttavia il senso profondo del travaglio che investe oggi il mondo musulmano non è probabilmente comprensibile se si dimentica il contesto globale in cui esso è ormai inserito e in particolare il confronto, inevitabile, con il cristianesimo. L’abbandono della logica della violenza sacrale, iniziato dall’evento di Cristo, raggiunge proprio in questo secolo, dalle guerre mondiali in avanti, una chiarezza cristallina nel magistero (pensiamo solo agli ultimi interventi di papa Francesco) e nella testimonianza disarmata di tanti martiri. Non è irragionevole ipotizzare che questa accresciuta consapevolezza inizi a porsi, come provocazione, anche per le altre tradizioni religiose. Suscita un duplice movimento, di accoglienza e di rifiuto. Indifferenti non può lasciare. Si può perciò prevedere che anche nel mondo musulmano la polarizzazione a favore o contro la violenza in nome di Dio tenderà ad accentuarsi. La zona grigia della religiosità arcaica si restringe e la scelta tra un autentico senso religioso e una fede ridotta a ideologia non è più rinviabile.
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