domenica 24 ottobre 2010
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La guerra non stabilisce chi ha ragione, ma solo chi ha torto. Una saggezza antica sembra attagliarsi al profluvio di carte riservate del Pentagono rese note ieri dal sito d’informazione «Wikileaks». La precisa – e spaventosa – contabilità delle vittime, le torture e gli abusi, documentati con la precisione dei rapporti militari, non paiono lasciare spazio alle ragioni invocate per giustificare l’invasione dell’Iraq nel 2003. Eppure, bisogna saper assumere una prospettiva più ampia, non completamente oscurata dall’indignazione del momento. Ciò che allo stato si può dire è che le carte diffuse via Internet da Julian Assange e collaboratori (con l’ausilio di altri importanti media) non cambiano sostanzialmente le conoscenze che erano finora disponibili per formarsi un quadro del conflitto nella terra dei due fiumi. Alcune di quelle che risultavano frutto di buone congetture oggi trovano conferme dettagliate, altre – non decisive – si aggiungono. Innanzitutto, il numero degli uccisi – circa 110mila fino al 2009, 70mila civili – non si discosta dalle stime più prudenti di varia fonte; anzi, circolavano bilanci indipendenti in cui il conteggio si attestava sulle centinaia di migliaia. Di 15mila uccisi da "fuoco amico" iracheno, in circostanze tutte da chiarire, si apprenderebbe invece solo adesso. Comunque troppi, i morti. Ma l’entità del conflitto risultava purtroppo già nota. Dopo Abu Ghraib e i tanti "errori" di bersaglio cui ci siamo assuefatti anche in Afghanistan, non sorprendono del tutto – i fatti vanno però condannati con forza – nemmeno le denunce di maltrattamenti ed esecuzioni a sangue freddo. È comunque provata la solo relativa differenza che, almeno all’inizio, le nuove forze armate irachene dimostravano rispetto ai "costumi" dell’era Saddam. Un segnale non confortante per lo sviluppo prossimo della democrazia di Baghdad. E se davvero gli americani hanno chiuso gli occhi di fronte alla resa dei conti interna, la circostanza sarà oggetto di ulteriori indagini che, inevitabilmente, scaturiranno dalla più grande rivelazione di file segreti mai compiuta. Conseguenze rilevanti potrebbero venire anche per la futura carriera politica del premier al-Maliki, in attesa di riconferma dalle elezioni dello scorso marzo, il quale esce dipinto come complice delle bande armate sciite sostenute apertamente dall’Iran. Quest’aspetto, tuttavia, ci porta ai sospetti, avanzati dai critici dell’operazione Wikileaks, di una diffusione "a orologeria", in qualche modo pilotata o comunque più utile a qualcuna delle parti in causa che non alle altre. Assange ha presentato il suo scoop, perché tale è oggettivamente, come un tentativo di ristabilire la verità, "prima vittima della guerra". Rendere disponibili informazioni che non si esclude possano illuminare violazioni gravi, i cui responsabili siano perseguibili, è un servizio alla trasparenza e al controllo pubblico delle scelte politiche e militari. Divulgare quanto non configura reati ma concorre alla conoscenza generale dei fatti costituisce poi il compito dei mezzi di informazione che, quali "guardiani del potere", hanno però anche un dovere di responsabilità. Non sappiamo se vi saranno davvero pericoli per singoli soldati, informatori o per la sicurezza nazionale irachena e americana, come denunciato da Washington; sicuramente i ripetuti colpi alla segretezza degli affari del Pentagono sono forieri di duplici implicazioni. In positivo, sarà più difficile pensare di nascondere sotto il tappeto gli episodi di cui le Forze armate si devono vergognare. In negativo, le azioni di intelligence, che per loro natura hanno necessità di restare coperte, rischiano di avere vita più difficile, complicando il compito di difesa degli interessi legittimi, compresa la prevenzione del terrorismo. Saranno gli storici, tra qualche anno, ad avviare una spassionata valutazione della seconda guerra d’Iraq. Oggi facciamo i conti con le testimonianze giorno per giorno di un conflitto che non è stato né "chirurgico", né "pulito" (ad esempio, per il ruolo bellico che emerge delle società private). Saperlo con maggiore dovizia di particolari non ci conforta, sebbene ci faccia sperare che i meccanismi di libera informazione e di pesi e contrappesi tipici delle liberal-democrazie possano – se ben calibrati – contribuire a rendere le guerre meno "sporche".
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