L’Onu: asilo per gli sfollati del clima
venerdì 31 gennaio 2020

Il procedimento è stato lungo, ma alla fine Ioane Teitiota una vittoria l’ha ottenuta: le Nazioni Unite hanno riconosciuto il diritto di poter presentare domanda di asilo in nome dei rischi climatici. Tutto inizia nel 2007, quando Ioane lascia la sua casa, insieme alla famiglia, per trasferirsi in Nuova Zelanda. La sua patria di origine è la Repubblica di Kiribati, un arcipelago del Pacifico formato da una trentina di isolotti, lembi piatti che a malapena emergono dal mare.

L’isola principale è Tarawa, una delle poche con energia elettrica e l’unica ad avere l’ospedale. Motivo per cui nel corso del tempo molte famiglie dell’arcipelago hanno lasciato l’isola natia e si sono trasferite a Tarawa dove si trova circa la metà dell’intera popolazione dell’atollo. Fra esse la famiglia di Ioane che a Tarawa poté studiare e in seguito trovare lavoro presso un’impresa commerciale che però chiuse sul finire del vecchio millennio.

Da allora Ioane non ha più trovato un impiego stabile. Ciò non di meno nel 2002 si sposò. Insieme alla moglie si era costruito una casetta che pur essendo sprovvista di servizi igienici aveva il vantaggio di essere allacciata alla linea elettrica ed era provvista di un pozzo per l’acqua. Ma poco dopo la zona risultò inabitabile: i cambiamenti climatici stavano facendo innalzare il livello del mare. Durante l’alta marea le case venivano allagate, i raccolti distrutti e i pozzi resi inservibili per la contaminazione dell’acqua salata. Molta gente si ritirò verso il centro dell’isola, ma non c’era spazio per tutti e la crisi ambientale si trasformò in crisi di convivenza. Non c’era abbastanza terra per tutti gli alloggi richiesti, il cibo scarseggiava ed era conteso, i pochi pozzi agibili erano presi d’assalto ed erano teatro di furibondi litigi per garantirsi un secchio d’acqua.

E poi c’erano le malattie: la mancanza d’acqua, l’alta concentrazione abitativa, la mancanza di servizi igienici, favorivano diarree ed infezioni intestinali che in alcuni casi risultavano letali. In breve da isola felice, Tarawa si stava trasformando in isola della paura e sentendosi minacciato nella sopravvivenza, Ioane decise di emigrare con la moglie. Destinazione Nuova Zelanda, la terra più vicina che non fosse piatta come Tarawa. Inizialmente la Nuova Zelanda fu una terra accogliente e accordò un permesso di soggiorno di tre anni a Ioane e sua moglie, un periodo di ritrovata sicurezza durante il quale ebbero tre figli. Ma nel 2010 l’Ufficio immigrazione decise di non rinnovare il permesso e l’intero nucleo familiare rimase in Nuova Zelanda in forma irregolare. Finché nel maggio 2012, con l’assistenza di uno studio legale, Ioane non presentò domanda per ottenere il riconoscimento di rifugiati e persone protette. Lo status di rifugiato è previsto dalla Convenzione adottata a Ginevra nel 1951 ed è riconosciuto a tutti coloro che sono fuggiti dalla propria nazione per paura di essere perseguitati a causa della propria razza, religione, opinione politica, condizione sociale. Lo status di persona protetta scaturisce dal Patto Internazionale relativo ai diritti politici e civili siglato nel 1966 che impegna ogni Stato firmatario a «rispettare e a garantire a tutti gli individui che si trovino sul suo territorio i diritti riconosciuti nel Patto senza distinzione alcuna, compresa la nazione di provenienza».

Fra i diritti riconosciuti nel Patto vi è anche il diritto alla vita ed è su tale principio che Ioane chiede protezione. Ma la Nuova Zelanda ritiene che l’obbligo di protezione valga solo nei confronti di coloro che rientrando nella propria nazione siano a rischio di trattamento crudele o di privazione arbitraria della propria vita. Condizione che l’Ufficio immigrazione non ritiene applicabile a Ioane, che si vede respingere la domanda. Ioane ricorre a tutti i possibili gradi appello. Ma invano. Nel 2015 arriva l’ultimo no da parte della Corte Suprema: Ioane viene imprigionato e poco dopo caricato su una nave che lo riporta a Tarawa assieme alla famiglia. Ma Ioane non si dà per vinto e ricorre al Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite denunciando la Nuova Zelanda per violazione del Patto per i diritti civili e politici. E nel gennaio 2020 arriva il pronunciamento. Il Comitato ritiene che nel caso specifico il Patto non sia stato violato ma afferma che il diritto alla vita non va interpretato in maniera restrittiva e che va protetto attraverso l’adozione di misure positive da parte degli stati. Soprattutto riconosce che «il degrado ambientale, i cambiamenti climatici e lo sviluppo insostenibile rappresentano alcune delle minacce più serie che attentano il diritto alla vita delle generazioni presenti e future ». Una dichiarazione di principio destinata a lasciare un segno nella giurisprudenza internazionale, che potrà aiutare molti sfollati climatici a ritrovare una nuova casa.

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