mercoledì 5 dicembre 2012
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Si chiude in questi giorni l’«Anno europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni». Una notizia che forse non finirà in prima pagina. Ma è importante soffermarvisi ugualmente, perché è un’occasione per riflettere su uno scenario che ci riguarda tutti e propone un accostamento che è un segno per il futuro. L’invecchiamento della popolazione è un fenomeno mondiale. Grazie ai progressi della medicina e allo sviluppo dei Paesi del Sud del mondo, il profilo dei cittadini del Pianeta ha più capelli bianchi di prima. L’Italia e l’Europa, come l’intero Occidente, partecipano in pieno al processo demografico in corso. E, purtroppo, lo vivono all’insegna dello squilibrio, complice il calo dei tassi di natalità. Come vivere su questo scenario? Rimuovendolo? Prendendosela con chi – si sostiene – graverebbe su un welfare già provato dalla crisi? Lo si sente dire sempre più frequentemente. Si preferisce non parlare di vecchiaia, si sceglie di non pensarci. Ovvero ci si balocca a suggerire conflitti generazionali che vertono sulla spesa sanitaria o pensionistica. Ma l’Anno europeo suggerisce un’altra strada, invitando a guardare all’invecchiamento come a una fortuna: non è in fondo un grande successo per l’umanità tutta intera? Ci viene proposto di non sprecare gli anni in più e in relativa buona salute che ci vengono donati, ci si ricorda di spenderli in una prospettiva di disponibilità e di apertura intergenerazionale. Tante volte c’è come uno spreco di vita. Si finisce con lo "scartare" gli anziani (Bauman), quando sono ancora nel pieno delle loro potenzialità. Siamo di fronte a una mentalità miope, oltre che disumana. Finiamo con il dire che la vita è troppa: questa è la nostra tragedia. Quando abbiamo di fronte anni belli, ancora in forze, desiderosi di impegno e di pienezza. Nell’Antologia di Spoon River è scritto: «Ci vuole vita per amare la Vita». Davvero ci vuole vita. Ci vuole più vita. Ci vuole una cultura che parta dalla vita, che non la sprechi, che la valorizzi e, alla fin fine, la alimenti. Di qui la nostra responsabilità. Costruire una società che goda dell’invecchiamento attivo di tanti suoi membri e lo inserisca in un contesto di relazionalità intergenerazionale. È ora di ricostruire intorno agli anziani una rete di rapporti: di vicinato, di volontariato, di impegno per il bene comune. Una rete che diventi garanzia di vita per gli anziani, per noi stessi, per tutti. Una civiltà si riconosce da come si pone nei confronti della vita, da come tratta gli estremi più deboli della catena della vita, da come costruisce ambiti vitali al suo interno, nel rapportarsi di coloro che ne fanno parte. È necessaria una "riconciliazione" tra generazioni diverse: i giovani e gli adulti hanno bisogno degli anziani e viceversa. Tale incontro fa scoprire ai più giovani che la longevità è uno dei frutti migliori del nostro tempo, e agli anziani che hanno ancora molto da dare in scelte, amicizia, saggezza. Gli anziani continuano a sperare, se sostenuti dai giovani e dagli adulti. La speranza non abbandona giovani e adulti se sanno che al termine del proprio percorso non c’è il baratro, ma l’accompagnamento. Alcuni giorni fa papa Benedetto XVI visitando un’esperienza innovativa nel campo dei servizi agli anziani, gestita dalla Comunità di Sant’Egidio, tutta nel segno di una solidarietà tra le generazioni, ha detto: «Non ci può essere vera crescita […] senza un contatto fecondo con gli anziani, perché la loro stessa esistenza è come un libro aperto nel quale le giovani generazioni possono trovare preziose indicazioni per il cammino della vita». Sì, in un tempo difficile e confuso, in cui si cercano crescita, indicazioni, sostegno, gli anziani possono trovare sostegno, i giovani un’indicazione, l’intera nostra società una crescita in termini di civiltà, di umanità, di vita.
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