martedì 7 aprile 2015
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Dopo il 'caso Lupi', anche la vicenda che vede coinvolta una nota 'coop' e ha posto sotto i riflettori, benché non indagato di alcun reato, Massimo D’Alema, ripropone la questione della pubblicazione di atti di un’indagine penale e in particolare delle trascrizioni di conversazioni o comunicazioni intercettate nel corso di un’indagine. Un punto dovrebbe essere fuori discussione. Le intercettazioni sono uno strumento prezioso e spesso indispensabile e decisivo, specialmente – ma non soltanto – quando si ha a che fare con la criminalità organizzata o con il terrorismo. Se ne deve però fare un uso equilibrato e sarebbe necessaria tutta una serie di filtri per evitare che da indebite anticipazioni delle risultanze (totali o parziali) delle relative operazioni derivino lesioni alla presunzione d’innocenza e al diritto di difesa. Soprattutto, dovrebbe essere meglio tutelata la privacy, sia degli indagati, sia – ed ancor più – quella di chi indagato non è, ma può ugualmente finire nel tritacarne mediatico: spesso senza neppur essere tra gli interlocutori diretti delle conversazioni intercettate. Da tempo tutti (o quasi) si dicono d’accordo nel deplorare che si diano in pasto a una curiosità spesso morbosa colloqui su fatti di natura strettamene privata; eppure si continua allegramente a ignorare questo canone, oggi lasciato sostanzialmente alla discrezione, ma anche alla discrezionalità, dei giornalisti, nonostante le condanne formulate al riguardo (anche nei confronti dell’Italia) dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Più delicato è il problema che si profila quando le intercettazioni coinvolgano direttamente soggetti che esercitano un ruolo pubblico e attengano alla gestione, da parte loro, di beni o servizi, oppure investano chi – come i banchieri o i grandi imprenditori – è comunque in grado di esercitare un forte potere, diretto o indiretto, su tale gestione. In casi del genere, si può sempre dire che sia altrettanto ingiustificata la pubblicazione di brani di conversazioni, pur prive di rilevanza penale, ma significative per la ricostruzione della personalità di un politico o di un uomo d’affari? Qui, viene pur spontaneo ritenere che debba prevalere l’interesse pubblico alla pubblicazione, affinché i cittadini siano in grado di trarne elementi per stabilire se determinate persone meritino davvero la fiducia cui dovrebbe essere subordinato il potere loro affidato. E la stessa Corte europea ha più volte affermato che gli uomini politici e altre persone che utilizzano solitamente la pubblica comunicazione anche per aumentare la propria popolarità – ivi comprese le 'stelle' del mondo dello spettacolo o dello sport – devono correlativamente accettare una riduzione dell’area di riservatezza loro spettante, rispetto a quella della gente comune. Resta un pericolo. Se, almeno quando si tratta di 'vip', si accetta senza riserve e senza limiti la prassi delle divulgazioni e delle pubblicazioni 'à gogo', non soltanto ne può venire screditata ingiustamente (e talora irrimediabilmente) la figura del diretto interessato, ma ne rimbalza un’ombra sulle stesse iniziative penali dei magistrati. Si può infatti indurre a pensare che un inquirente scavi su vere o supposte responsabilità criminali, avviando o approfondendo indagini destinate poi a rivelarsi totalmente o parzialmente infruttuose sul piano penale ma utilizzate o utilizzabili proprio per evidenziare dati imbarazzanti per qualcuno, così da comprometterne la posizione a livello di responsabilità etico-politica. Il che non è un bene per l’immagine, ma soprattutto per il funzionamento corretto, della giustizia. Sfiducia aprioristica nella magistratura? No; al contrario, desiderio di vederla sempre, il più possibile, immune da ogni sospetto: come essa, nella stragrande maggioranza anche dei suoi esponenti venuti in primo piano per inchieste e processi 'sensibili', ha sicuramente meritato di essere e di rimanere.
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