Indipendenza bene comune
sabato 10 dicembre 2022

«Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale». Non è nuovo il dibattito sulla laconica regola che si legge all’art. 112 della Costituzione; ma a ravvivarlo, in questi giorni, è stato il proposito di revisione, espresso dal ministro Nordio davanti alle Commissioni giustizia delle due Camere, con il concomitante annuncio dell’intenzione di esplicitare, nel testo costituzionale, una netta e radicale separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri.

Numerose, insieme ai consensi non strettamente limitati all’area di governo, le voci polemiche, talora spinte sino all’allarme: e non solo tra i magistrati e tra le forze politiche di opposizione. Non è, del resto, troppo lontano il ricordo di quando il richiamo all’articolo 112 è servito come scudo a sostegno di iniziative dei titolari di indagini delicatissime, per metterli al riparo da cedimenti a suggestioni, a seduzioni e anche a vere e proprie minacce, più o meno velate, di potenti e prepotenti, alle quali si è potuto rispondere: non siamo noi che vi vogliamo perseguire; è la Costituzione che ci obbliga; dunque, le vostre lusinghe e le vostre minacce sono fuori bersaglio e restano vane.

Tutto questo è vero. Però è anche vero che il vissuto dell’art. 112, accanto a queste luci, presenta non piccole zone d’ombra. È fuor di dubbio che in quella versione il Costituente si sia espresso con una rigidità non avente uguali nei Paesi europei che pur non meno del nostro possono esibire nella loro storia e nel loro presente i valori dello Stato di diritto. E qui non parlo solo di quelli che, come la Gran Bretagna e la Francia, si ispirano programmaticamente a un principio opposto a quello di obbligatorietà dell’azione penale, all’insegna di una discrezionalità di base che viene esplicitamente lasciata agli organi dell’accusa penale (sempre più ancorata, però, a criteri di esercizio, in radice fissati ab extra) sul se e sul come innescare un processo per i reati che si vengono a scoprire. Penso anche e soprattutto alla Germania, dove pur non è ignoto l’obbligo di procedere, per il pm (seppur non esplicitamente formulato nella Carta fondamentale, lo si ricava sì dall’intero contesto costituzionale), ma è generalmente ammesso che in relazione ai reati minori possa trovare a livello di legge ordinaria – e in effetti trova – varie eccezioni.

In Italia quella rigidità ha, in passato, costituito un freno a più che opportune possibilità di “de-processualizzazione” di parte della massa di denunce di scarso rilievo sociale, oltretutto destinate a finire (e, quel che è peggio, a far finire altri casi più gravi) sotto la scure della prescrizione. Oggi, da questo lato, il costo che ne conseguiva si è assai ridotto e quasi azzerato, soprattutto da quando si è riusciti, a dispetto di quella rigidità, a far sì che si possano archiviare, con il beneplacito di pm e giudici, le notitiae criminis concernenti casi di particolare “tenuità”.

E , specialmente se troveranno sviluppo gli incentivi alla “giustizia riparativa”, verrà sempre meno a soffrirne la tutela delle vittime dei reati. È rimasta però, finora, un’anomalia di segno diverso: la proclamata obbligatorietà non ha impedito che i magistrati del pubblico ministero dispongano di fatto della più ampia discrezionalità nella scelta dai tempi per le loro iniziative nell’avviare e nel condurre le indagini relative a ciascuna notizia di reato; essa finisce così per coprire un potere che invece va disciplinato.

A dire il vero, con la “riforma Cartabia” (la cui entrata in vigore dovrebbe sbloccarsi alla fine dell’anno) anche a tal proposito si sono fatti passi avanti significativi, nel senso di vincolare l’esercizio del potere a quelli che sono stati chiamati “criteri di priorità” tra le varie categorie di reati, da fissarsi, anche in rapporto alle disponibilità di personale e di strutture, a partire da determinazioni parlamentari di carattere generale per scendere alle specificazioni da parte dei singoli uffici di Procura da esternare nei relativi progetti organizzativi.

Tutto ciò non esclude l’opportunità di un dibattito a più ampio raggio, che si estenda senza pregiudiziali anche all’art. 112. Non può essere un tabù. Ma non può nemmeno essere un bersaglio intermedio per favorire – anche al di là delle migliori intenzioni – vecchi e nuovi regolamenti di conti di una certa politica con una certa magistratura. Insomma, né privilegi di categoria né attentati all’indipendenza, essenziale, in Italia, anche per i magistrati del pubblico ministero.

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