Indignazione, sgomento e fede: che cosa fare per i «cacciati»
giovedì 24 gennaio 2019

Gentile direttore,

il Cara di Castelnuovo di Porto, un’eccellenza. Anni di lavoro e progetti di integrazione. Tutto in fumo, nel nome di quale “sicurezza”? Leggo di appelli e cortei, leggo articoli sui giornali. A che cosa servono se c’è chi detiene il potere e considera questi provvedimenti come un esempio di estrema coerenza e continua a ripetere: «Non mollo...» e «La pacchia è finita»? È una strategia evidente che mira a colpire tante realtà positive e stranamente continua a mantenere realtà che hanno e continuano a mostrare tante negatività: buttare sulla strada dei disperati e costringerli a delinquere in modo da poter confermare un teorema: sono tutti delinquenti. La «pacchia» è finita anche per tutte quelle persone che per anni hanno profuso energie ed ora vedono frustrato ogni loro sforzo assieme alla perdita del loro lavoro? Cosa possiamo fare come cittadini di fronte a leggi ingiuste e criminogene? Si stringe il cuore, sentendosi impotenti.

Luigi Di Marco


Caro direttore,

adottiamoli a casa nostra! Stamattina non sapendo come reagire alle notizie purtroppo annunciate ma non per questo meno tragiche degli allontanamenti dai centri di accoglienza, mi è venuta questa idea! Ma come fare? Fare una sottoscrizione da parte del giornale? E dove accoglierli? Visto che tutto è diventato illegale? Grazie per la sua attenzione.

Eleonora Panzera


Caro direttore,

«Dove trovano sicurezza e riposo i deboli se non nelle ferite del Salvatore?». Nei giorni scorsi l’Ufficio delle Letture ambrosiano proponeva un bellissimo testo di san Bernardo di Chiaravalle che iniziava proprio con questa frase. Leggendola non ho potuto fare a meno di mettermi nei panni del debole che cerca sicurezza. Quante volte, nella vita, emerge la nostra debolezza e quante volte, anche se per orgoglio non lo dichiariamo, desidereremmo trovare un rifugio, una casa sicura dove poter riposare. Anche l’umanità vive la stessa condizione. Per questo la Trinità si è commossa e si è mossa verso di noi, spalancando le ferite del Figlio come la casa più sicura per ogni uomo, smascherando così la tentazione di costruire noi questa “sicurezza”. Davanti alla nostra personale debolezza e davanti alla debolezza di tutta l’umanità, degli uomini traditi, cacciati, perseguitati, eliminati prima di nascere... i cristiani non possono permettersi di dimenticare «le ferite del Salvatore». Non possiamo perderci nelle analisi politiche, nel protestare, nel recriminare, nel prendere le distanze. Chi deve governare governi, ma a noi tocca un’altra cosa: rendere più accessibili le ferite del Salvatore. Per questo pratichiamo le opere di misericordia, per questo difendiamo l’uomo senza selezionare le minacce presenti, per questo affermiamo che nessuno è straniero. Il mondo non ha bisogno di un’idea politica più intelligente e nemmeno di una polemica più accattivante. Il mondo ha bisogno di ritrovare le ferite del Salvatore e di riposarsi in esse. Abbiamo forse intrapreso altre strade?

don Simone Riva


Tre lettere che dicono bene i sentimenti che provano tanti buoni cristiani davanti allo spettacolo della polemica permanente contro i poveri “stranieri” e a quello, sconvolgente, della progressiva cacciata dai Centri dove erano ospitati (e nei quali studiavano l’italiano e tentavano la via dell’integrazione nella nostra società) di tutti quei migranti che erano stati riconosciuti bisognosi di «protezione umanitaria » e ora in forza di legge sono stati decretati non più “protetti”. Le parole per descrivere tutto ciò sono dure e amare: esclusione, distruzione, deportazione, espulsione... L’incalzante e lucida protesta del signor Luigi, lo sgomento e la santa voglia di fare della signora Eleonora, il dolente richiamo a Cristo e all’essenziale della nostra fede di don Simone. «Non possiamo perderci...», dice l’amico sacerdote. E infatti non possiamo perderci in chiacchiere e dietro le chiacchiere, soprattutto alla chiacchiere più cattive, dobbiamo fare la nostra parte, dobbiamo fare ciò che è giusto agli occhi di Dio e con occhi capaci di “vedere” Dio, là dove Lui stesso ci ha insegnato a trovarlo e a riconoscerlo. Questo in buona misura sta già accadendo, grazie a Dio e tanti uomini e donne di fede, di coscienza, magari diversi e diverse tra loro ma accomunati dalle stessa capacità di nutrire umana solidarietà. Soccorrendo, adottando, obiettando, abbracciando, pregando con parole rivolte a Dio e con concrete azioni di carità e di giustizia. Non è abbastanza, e forse non lo sarà mai, ma è importante. E ancora di più nel tempo che viene... I governanti, comunque credano e comunque la pensino, sono e saranno responsabili dei propri gesti e di ciò che generano. I cristiani sono e saranno responsabili del loro amore. L’importante, credo, come insegna la Chiesa e come il Papa ci ricorda con fedele chiarezza, è che non dimentichiamo mai che i poveri sono la «carne di Cristo». E che nelle ferite del povero tocchiamo le ferite del Salvatore.

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