venerdì 23 novembre 2012
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Ho davanti a me una foto: la facciona tonda, mediorientale, pacioccona, di un bambino di 3 anni. La mostra l’Ansa, nel suo sito, mentre scrivo questo articolo. Il bambino è ripreso di profilo, dal fianco destro, guarda in avanti, e alza la mano destra. È qui il problema. Nella mano destra tiene una pistola. La impugna bene, come ai soldati insegna l’addestramento e come suggerisce l’istinto. Il pollice sta dietro il calcio, tre dita stanno davanti, e l’indice sul grilletto.
L’indice sul grilletto è la spia dell’immaturità di questo soldatino, una pericolosità, una sventatezza. Perché basta che quell’indice si contragga per uno scatto nervoso, magari uno scoppio nelle vicinanze, e l’arma spara. È fatta per questo. La pistola è, lo sanno bene i soldati, un 'pugnale lungo': altamente imprecisa, a tre metri il tiro va fuori bersaglio, si usa per la difesa ravvicinata, in battaglia non si adopera, i soldati non ce l’hanno.
Ma a cosa serve a questo bambino? Perché alza una pistola? Perché è pronto a sparare? Chi gliel’ha messa in mano? Il padre? E perché? La foto è stata scattata durante i festeggiamenti per quella che ieri veniva lanciata come «la pace». Ma si può festeggiare la pace alzando una pistola? A festeggiare la pace è la generazione dei padri di questo bambino. Ma questi padri possono festeggiare la pace armando i loro bambini? È come se passassero la consegna, da se stessi ai loro figli: 'Andate, figli nostri, e continuate la nostra guerra'.
La pace ha bisogno di mille condizioni: un’intesa sui confini, i diritti, i passaggi, i passaporti, il lavoro. I palestinesi protestano che i loro diritti sono calpestati dal 1967, citano risoluzioni dell’Onu ignorate da Israele, Israele protesta per gli attacchi in casa, nel proprio suolo, nelle proprie strade, attentati non casuali ma mirati a far male alla gente, ferire la vita delle famiglie. Sono due popoli in guerra da troppo tempo. 
Quando la guerra dura a lungo, non la combatte solo la generazione che la fa, ma anche la generazione successiva, che vien su. E qui, come mostra questa foto, coinvolge anche i bambini. Se a tre anni questo bambino alza una pistola del papà, a 10 ne avrà una tutta sua, e imparerà a sparare. Se il padre gliela fa 'tenere in mano' a 3 anni, a 10 gli insegnerà a usarla. E a 15 il bambino la userà da solo.
La manifestazione di gioia popolare da cui è tratta questa foto festeggia la tregua di oggi, ma in realtà prepara i guerrieri di domani. Questo bambino è fatto per giocare, dovrebbe avere in mano giocattoli. I giocattoli sono leggeri, la pistola è pesante. I giocattoli li usi per creare divertimento, la pistola per creare il lutto. Il passaggio dal bambino che gioca all’uomo che uccide è lungo, contiene molte tappe, e tutte traumatiche. In questo passaggio tutto cambia, nell’essere umano: l’arma è pensata, disegnata, costruita da tecnici che tengono conto di tutto, la sensibilità delle dita, dei polpastrelli, la prensilità, cioè la facilità ad essere impugnata, l’intuibilità, cioè la facilità a capire come si usa, come si mira, come si fa fuoco.
Da noi, dove il servizio militare si svolge a vent’anni, il ventenne che conosce le armi e il diciottenne che ancora non ne sa nulla, sono due uomini diversi, per mente, nervi, psiche. Usare le armi è la vera linea d’ombra, quella che separa il bambino dall’uomo, altro che il tifone di cui racconta Conrad. Quando impugni un’arma, vai al di là del bene e del male, dove c’è un altro bene e un alto male. Nella vita, è un disastro, il disastro più grande che possa capitare. Questo bambino pacioccone è disastrato dalla guerra. Fra i tanti disastri che la guerra combina (rovina città, case, strade, chiese, stazioni, ospedali…), questo è il più grave: rovina l’infanzia.
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