In cella non per vendetta. L'antidoto alla «polveriera»
mercoledì 18 settembre 2019

Nella settimana – quella trascorsa – in cui quasi l’intero Paese esultava per l’ergastolo comminato a Vincenzo Paduano, papa Francesco, nell’incontro di sabato 14 settembre in piazza San Pietro con chi opera all’interno delle carceri, ha ripetuto: «L’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere. Perché se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società. Mai privare del diritto di ricominciare! Voi col vostro lavoro e col vostro servizio siete testimoni di questo diritto: diritto alla speranza, diritto di ricominciare». Mi sarei aspettato da questo contrasto – un ergastolo comminato e 48 ore dopo il Papa che ribadisce di essere contro l’ergastolo – la nascita di un dibattito o, quanto meno, di una riflessione: invece pare che affermazioni così forti del Pontefice e la vita procedano su binari paralleli. Eppure, non è certo la prima volta che un Papa si esprime con parole di questo tenore: si pensi al costante impegno di Giovanni Paolo II, agli incontri di Benedetto XVI in carcere, prima ancora all’attenzione di Paolo VI e, soprattutto, a Giovanni XXIII nella sua storica visita a Regina Coeli nel dicembre 1958.

Mercoledì scorso Paduano era stato condannato all’ergastolo perché, ai trent’anni presi per aver ucciso e bruciato l’ex fidanzata Sara Di Pietrantonio, la Corte d’Appello aveva deciso di aggiungere altri quattro anni per stalking, cambiando così la sentenza precedente che aveva assorbito il reato di stalking in quello di omicidio. In questo modo la pena ha superato i 33 anni diventando automaticamente ergastolo. Non è vero che l’ergastolo in Italia 'di fatto' non esiste, come si ripete sempre. C’è, ed è di due tipi: l’ergastolo semplice, al quale se ci comporta in un certo modo possono essere applicate le procedure premiali; o quello ostativo: quest’ultimo è per esempio il carcere dei mafiosi se non divengono collaboratori di giustizia. Per i secondi uscire dal carcere solo se si è in una bara è una certezza; per i primi è una possibilità.

Il Vescovo di Roma – ma non è l’unico a pensarla così – ritiene che l’ergastolo vada, in sostanza, contro il principio che in Italia è racchiuso nell’articolo 27 della Costituzione laddove proclama che le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato»: che rieducazione è pensabile per una persona che, almeno in linea di principio, uscirà dal carcere solo in una bara?

Iniziare un dibattito civile sull’ergastolo non significa sminuire l’orrendo femminicidio di Paduano, né togliere importanza al reato di stalking: c’è solo da chiedersi perché nessuno, nell’elogiare il rigore della punizione per la tragica morte di Sara, si sia posto il problema di coniugare la certezza della pena con la richiesta di abolire l’ergastolo. A rigor di logica, chi è contro la pena di morte dovrebbe essere anche contro l’ergastolo, che lo stesso Pontefice ha più volte definito «pena di morte coperta» (come nel discorso ai penalisti, 23 ottobre 2014).

Nel 1981 ci fu un referendum per l’abolizione dell’ergastolo, ma vinse il fronte del no. Da allora è stato un argomento tabù, tanto che fino a papa Francesco l’ergastolo era teoricamente presente anche in Vaticano. L’ha abolito l’attuale Pontefice il 12 luglio 2013 ribadendo che «chiude in cella la speranza»: in altre parole, con l’ergastolo, si perde una delle due finalità della carcerazione: quella di recuperare il condannato. Questa è la vera domanda che la società si deve porre. È per noi sufficiente mettere una persona nelle condizioni di 'non nuocere più'? Quando mi capita di parlare di carceri e carcerati a volte sento dire che il colpevole 'deve marcire in cella'. Chi parla così non coglie la differenza, profondissima, tra giustizia e vendetta. La vendetta non è una 'giustizia eccessiva': la vendetta è l’antigiustizia, il combustibile che fa diventare il carcere una polveriera. «È essenziale garantire condizioni di vita decorose – ha detto Francesco –, altrimenti le carceri diventano polveriere di rabbia, anziché luoghi di ricupero ». Tutte le statistiche confermano che la pena di morte non fa diminuire i delitti. Che senso ha dunque tenere nel nostro ordinamento un provvedimento inefficace che fa crescere i potenziali di vendetta, perché 'vendetta chiama vendetta'?

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