giovedì 25 aprile 2013
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Caro direttore, giorni fa Matteo Renzi, in piena campagna per l’elezione del capo dello Stato, ha scritto su 'Repubblica' una lettera sul rapporto tra fede e politica. Sul momento, quello scritto era finalizzato a contestare la candidatura di un autorevole esponente del suo partito. Ma nel far questo ha investito il tema del rapporto stesso tra religione e politica nell’odierna realtà italiana. I due aspetti non vanno confusi. Mi permetto dunque di intervenire solo oggi per evitare che una polemica contingente possa offuscare una discussione seria che vale la pena continuare.
La tesi di Renzi è più o meno questa: oggi non si può rivendicare una identità politica o uno spazio nell’agone pubblico in nome del proprio essere cattolici; tantomeno si può tradurre l’aspirazione cristiana, in politica, nella difesa di alcuni precetti e di una visione etica che viene vista come arcigna e molto rigida. A me pare che questa tesi, da un canto, banalizzi la nostra storia e, dall’altro, semplifichi eccessivamente il significato del voler essere oggi cristiani in politica. Non si può infatti ignorare che lo Stato italiano è l’unico nato 'contro' la Chiesa, negando così una parte di quella tradizione che preesisteva allo stesso Stato unitario. Né si possono dimenticare o banalizzare i percorsi contorti attraverso i quali i cattolici si sono integrati nella vita politica.
Anche da questa peculiarità italiana è scaturito, nel secondo dopoguerra, il partito unico dei cattolici. Quando poi l’esperienza della Dc è stata superata, sono nati, a destra come a sinistra, partiti nei quali laici e cattolici hanno convissuto, e col nuovo millennio – anziché affermarsi una progressiva secolarizzazione come tanti profeti del laicismo avevano preconizzato – i princìpi cristiani sono diventati addirittura una bussola anche per tanti non credenti. È in questo contesto che l’allora cardinale Ratzinger, alla vigilia dell’ascesa al soglio pontificio, da Subiaco rinnovò l’appello pascaliano a chi non crede a vivere come se Dio esistesse.
Per il mio percorso politico, non posso certo essere sospettato di agognare un ritorno al partito dei cattolici. E nemmeno di voler rivendicare una posizione in nome di una fede scoperta in tarda età. Ma forse proprio per questo nelle argomentazioni del sindaco di Firenze scorgo due gravi rischi. Il primo è quello di ridurre il cristianesimo a un sentimento tanto entusiastico quanto generico, che implicitamente relativizza alcuni princìpi di fondo essenziali per orientarci di fronte alle sfide del nostro tempo. Il secondo è che ci si limiti a rivendicare un’appartenenza senza riconoscere a un’identità, che è parte viva della nostra tradizione nazionale, la forza di orientare i comportamenti politici. In questo caso l’ostentazione gioiosa della propria fede non farebbe venir meno il rischio di relegarla nel ghetto della coscienza individuale e di negare ai princìpi cristiani rilevanza nello spazio pubblico: proprio come vorrebbero i laicisti.
L’appartenenza a una fede certamente non può essere motivo per rivendicare un posto di responsabilità. Attenzione, però, a non banalizzare in nome del 'politicamente corretto' il significato dell’essere oggi cristiani in politica. Senza volerlo, tale superficialità potrebbe divenire causa di discriminazione, per negare ai portatori di quei princìpi ogni rilevanza.
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