mercoledì 3 giugno 2009
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Quella di domani, 4 giugno, potrebbe essere una data da ricordare. Barack Obama parlerà al mondo islamico dall’Università del Cairo e cercherà di se­gnare una svolta politica e culturale. Per il modo: un inedito appello diretto a un quinto della popolazione mondiale, qua­si un 'discorso alla nazione' come quelli che i presidenti Usa di solito fanno ai con­cittadini americani. Poi per il luogo: l’E­gitto che, come ha ricordato il Wall Street Journal, è il perno «di tre grandi cerchi con­centrici: il mondo arabo, il mondo africa­no e il mondo islamico», oltre a essere da decenni in prima linea nello scontro tra i­slam moderato e islamismo radicale. Infi­ne per l’oratore. Perché Obama, domani, sarà assai più che il presidente degli Stati Uniti. Agli occhi e al­le orecchie del mondo intero sarà anche il figlio di un nero del Kenya e di una madre bianca che poi sposerà un indonesiano. L’ex ragazzino cresciuto a Giacarta, capitale del più popoloso Paese a maggioranza islami­ca del mondo. Il politico che si chiama Barack, con un richiamo alla benedizione ( barakh) araba e Hussein, in me­moria dell’imam omonimo, figlio del califfo Ali e ni­pote di Maometto. Per i musulmani moderati sarà an­che il nero diven­tato presidente della nazione che non troppi decenni or sono usava i neri co­me schiavi, la dimostrazione vivente che nell’America non si può vedere solo l’im­mutabile 'demone' che ossessiona i radi­cali islamici e riempie la loro propaganda. Barack Obama esibisce, e quasi ostenta, la mano tesa all’islam: l’ha mostrata il 20 gen­naio nel discorso d’insediamento alla Ca­sa Bianca («Al mondo islamico diciamo di voler cercare una nuova via di progresso, basata sull’interesse comune e sul reci­proco rispetto»), il 20 marzo nel messaggio augurale per il capodanno dell’Iran, il 6 a­prile nel discorso al Parlamento turco («Non siamo e non saremo mai in guerra con l’islam»). Sarebbe però sbagliato cre­dere che le sue iniziative siano a senso u­nico. Anche nel mondo musulmano si per­cepisce una forte attesa. In parte dovuta al­la semplice emozione del cambiamento (di tono, di atteggiamento, di propositi) tra Bush e Obama. Ma in parte basata su in­terpretazioni più raffinate e complesse, co­me nel caso della Lettera aperta ai leader del mondo contemporaneo firmata a Doha in gennaio da più di 300 esponenti islami­ci di 76 Paesi di tutti i continenti e diffusa proprio nel giorno dell’insediamento del presidente Usa. Proprio l’aspettativa del mondo musulma­no costituisce, a ben vedere, il pericolo mag­giore per Obama, perché il rischio di delu­derne le attese è grande. Le masse si aspet­tano una svolta radicale, che non verrà. Gli intellettuali e i religiosi chiedono, più sag­giamente, che gli Usa collaborino perché nei Paesi islamici si apra una nuova epoca di crescita economica, sviluppo civile, ri­spetto dei diritti umani, dialogo tra istitu­zioni e cittadini. E anche qui il capo della Ca­sa Bianca può fare poche promesse, perché la politica Usa è bloccata tra l’inevitabile so­stegno a presidenti e sovrani filo-occiden­tali, ma corrotti e autoritari, e l’inguaribile timore che di una democrazia nascente possano approfittare soprattutto gli estre­misti, come in Algeria negli anni Novanta o come avrebbe potuto succedere nello stes­so Egitto in uno qualunque degli ultimi de­cenni. E ieri è arrivata, puntuale, l’intimi­dazione via Internet di al-Zawahiri, nume­ro due di al-Qaeda: «Dalla Casa Bianca so­lo messaggi di sangue». Domani servirà, insomma, una buona do­se dell’Obama Magic, quel tocco che con­sente al presidente di nutrire ideali forti, però di trattarli con una buona dose di prag­matismo. Ma è già tutta un’altra strada. E molte grandi imprese sono cominciate con un bel discorso.
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