martedì 11 marzo 2014
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Gentile direttore,
leggo “Avvenire” e, la scorsa settimana, ho ascoltato il vostro collega Paolo Lambruschi a “Prima Pagina”, su Radio3. L’argomento su cui vorrei concentrarmi è quello delle pensioni basse. Ho lavorato per le Ferrovie e ho versato contributi per 43 anni. Sono del parere che chi ha una bassa pensione ha versato poco o ha lavorato pochi anni o ha versato quote piccole. Parlo di ciò che conosco: venti anni fa, un mio collega se ne è andato in pensione con soli 20 anni di effettivo versamento e con 7 anni regalati come “scivolamento” e, ancor prima, come “legge dei combattenti”; io, invece restai nel mondo del lavoro. Se oggi il nostro “eroe” si ritrova con una pensione inferiore, non può e non deve lamentarsene. E se sarà aiutato, questo avverrà a scapito di quelli che come me hanno continuato a lavorare per tanti anni. Mi chiedo se di questo passo si arriverà ad avere un pensionato che ha dato e versato poco che prende la stessa pensione del collega che ha dato e versato molto. Non dimentico che la più giovane “pensionata d’Italia” (anni 80, all’epoca del governo Craxi) aveva appena 29 anni! Sono del parere che le pensioni debbano essere proporzionali all’effettivo versato. Se lo Stato non può più pagare le pensioni basta che tolga quanto, a suo tempo, ha regalato.
Giorgio Paolinelli, Ancona
L’idea di andare a toccare i “diritti acquisiti”, gentile signor Paolinelli, è sempre sbagliata e rischiosa. E non solo perché il nostro è un Paese ad altissimo tasso di “ricorsite”. Pacta servanda sunt, dicevano già gli antichi. Vale nei rapporti tra i grandi del mondo, vale ancora di più nei rapporti tra le istituzioni e i cittadini. L’importante è non ripetere più certi errori, e quello quasi incredibile dell’elargizione delle cosiddette baby-pensioni è uno scandalo effettivamente difficile da digerire. Detto questo, mi sembra che il suo appello a una giustizia contributiva possa trovare riscontro nell’attuale filosofia – chiamiamola così… – del sistema previdenziale nazionale. La condivido, e penso che quanto lei afferma abbia una solidissima base morale. Altrettanto morali mi sembrano, poi, un’attenzione e due preoccupazioni. L’attenzione è quella a non “categorizzare” assurdamente come “privilegiati” coloro che hanno lavorato tanto e tanto hanno versato alle rispettive casse previdenziali: se ciò che raccolgono è commisurato al contributo che hanno garantito nel tempo, che non è solo quello meramente pensionistico, nessuno ha titolo per giudicarli e addirittura insolentirli. Naturalmente penso anche che, in pensione come in ogni fase della propria vita, chi più ha più deve dare per partecipare con le proprie risorse a un sistema redistributivo efficacemente solidale. La prima preoccupazione è, perciò, di veder garantiti assegni pensionistici capaci di assicurare una dignitosa sopravvivenza a chiunque. Che non significa equiparare irragionevolmente tutti gli assegni, ma sostenere i più deboli secondo la logica virtuosa di un sistema equo ma che “non lascia indietro nessuno”. La seconda preoccupazione è, infine, di non costruire meccanismi che continuino – come è accaduto per troppo tempo – a riconoscere e affrontare il solo problema, pur reale, della terza età. In questi anni, dati alla mano, abbiamo analizzato e sottolineato a più riprese che non soltanto stiamo crescendo una generazione di figli più “poveri” di noi (tantissimi già lo sono, tanti altri di questo passo sono destinati a esserlo), ma stiamo anche ipotecando pesantemente il futuro dei nostri nipoti. Bisogna cambiare strada. L’attuale governo, con determinazione ancora più dichiarata, si propone di farlo. Aspettiamo con ansia e fiducia la controprova.
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