L'omicidio di Charlie Kirk ci spinga a riscoprire la bellezza del dialogo
Si deve credere nella pace, stare dalla parte di chi cerca il dialogo e vuole “costruire ponti”, coltivare l’ascolto dell’altro, confrontarsi rispettando la diversità e camminarle a fianco

La mattina in cui in Italia i giornali riportavano la notizia dell’assassinio dell’attivista e influencer conservatore americano Charlie Kirk, il figlio adolescente di un caro amico è stato in grado, mentre facevano colazione, di spiegare a suo padre chi era Kirk, cosa sosteneva, la sua modalità di provocare e stimolare il dibattito e di rapportarsi a chi non la pensava come lui. Non era un suo “follower”, ma ne conosceva benissimo il pensiero dai post e dai video condivisi sui social network. Era sconvolto esattamente come se avessero ucciso un politico o un attivista italiano. La stessa cosa ha riguardato diversi ragazzi figli di conoscenti.
C’è una generazione che di Kirk, e non solo, sapeva e sa più di molti analisti affermati, senza frequentare i canali con cui abitualmente si informano le persone di età più avanzate. Attenzione: dire che “conoscevano Kirk” non significa affermare che ne condividessero il pensiero, o che non visualizzassero contenuti di segno opposto, ma che nel villaggio dei social, se si parla di idee, i confini sembrano ormai il residuo di un’epoca. Al punto che chiedersi “cosa succede oggi in America” può apparire una domanda fuori contesto, non come l’interrogarsi – casomai – sulla modalità con cui gli algoritmi delle big-tech decidono quali contenuti devono essere visualizzati e quali invece no. La realtà è che quanto succede negli Stati Uniti accade esattamente qui come altrove, l’odio che si insinua in determinati contesti ne contagia altri che erroneamente riteniamo protetti, e non ci sono dogane capaci di arginare il virus della contrapposizione, e nemmeno il merchandising della propaganda. La maglietta indossata dall’assassino di Kirk sta andando a ruba, a prezzi che arrivano a toccare i 500 dollari. Su una delle cartucce usate dal killer c’erano riferimenti a “Bella ciao”, che per gli italiani è il canto simbolo della liberazione, mentre per i giovani globali un testo sì antifascista, ma riscoperto di recente grazie a una serie tv, “La Casa di carta”, nella quale il concetto di oppressione è alternativo a quello di redistribuzione per mezzo delle armi. Insomma, anche parlare di destra e di sinistra sembra un po’ fuori dal mondo, se i codici di base sono sempre più spesso quelli dell’odio o della violenza.
Molti commentatori, giustamente, hanno posto l’attenzione sulla polarizzazione che caratterizza in gran parte il confronto nelle piazze digitali, dove nessuno sembra capace di discutere con nessuno se non opponendo il proprio elenco di verità e di crudeltà in uno scontro senza soluzione. La scrittrice britannica Naomi Alderman la chiama “la trappola della faida infinita”. Paradossalmente, il linguaggio di Kirk sembrava voler rompere proprio questo schema, sfidando con gli argomenti chi non la pensava come lui, e provocando le persone a smentirlo – “Prove me wrong”, dimostrami che ho torto, era il format dei suoi dibattiti. Una tecnica di persuasione anche questa, raffinata, ma comunque una modalità di confronto in campo aperto, e in virtù di argomenti sensati. Che è totalmente in controtendenza rispetto al flusso di questa stagione in cui la suggestione dei “pensieri unici” è tornata a essere una prospettiva seducente perché facile, e la forza e la sopraffazione muscolare, tra risvegli “woke” e culture da cancellare, sono da tempo gli ingredienti del racconto quotidiano.
Sicuri, insomma, che tutto dipenda soltanto dagli strumenti della comunicazione digitale? O che non si stiano riesumando schemi noti, determinati dalla semplificazione e dalla crisi del pensiero, in cui le etichette appiccicate sulle giacche degli esseri umani servono a offuscarne l’identità per renderle bersagli facili e legittimi dopo che si sono armati i bambini? I ragazzi assassini degli anni di piombo non erano accecati dai social. Più che l’ecosistema delle “reti sociali”, a preoccupare è questo clima diffuso da scontro tra “centri sociali”. Un contesto in cui le istanze di giustizia sono troppo spesso rivendicate con gli occhi gravidi di rabbia e dove, anziché «scegliere la logica dell'incontro» – le parole usate dal cardinale Mauro Gambetti all’assemblea del World Meeting on Human Fraternity della settimana scorsa – ci si lascia piuttosto «imprigionare dalla logica del nemico».
L’omicidio di Charlie Kirk, avvenuto alla vigilia di un altro 11 settembre, rischia così di rappresentare un nuovo spartiacque. Ma se la sensazione è quella di essere in trappola, prigionieri di risposte già scritte da un’intelligenza esterna incapace di umanità ed empatia, perché si vuol conoscere solo una parte della storia, allora non ci sono soluzioni semplici. Si deve invece credere nella pace, stare dalla parte di chi cerca il dialogo e vuole “costruire ponti”, come ricorda Papa Leone, coltivare l’ascolto dell’altro, confrontarsi rispettando la diversità e camminarle a fianco. La resistenza all’odio e a chi lo semina è possibile. E la vera libertà è anche saper provare pietà e compassione per le vittime, e persino per i carnefici.
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