venerdì 18 marzo 2011
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Vista con gli occhi degli insorti libici, la quasi certa decisione (il voto era nella notte) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di istituire una 'no-fly zone' sulla Libia sembra arrivata troppo tardi, come una beffa: ormai la bilancia militare si è rovesciata e quell’impasto strano di mercenari, forze lealiste e gruppi tribali fedeli al clan Gheddafi sta stringendo il proprio cerchio su Bengasi. Ma una battaglia, come si dice, è perduta solo nel momento in cui è perduta, mai prima: se anche sembrano tramontate le speranze un po’ ingenue di un’uscita di scena quasi pacifica del colonnello, sul modello dei presidenti autocrati di Tunisia ed Egitto, rimangono tuttavia evidenti le fragilità e l’isolamento del regime di Tripoli. Una 'no fly-zone' di per sé non rappresenta una misura risolutiva, a meno che Gheddafi – certo non noto per la ponderatezza delle sue decisioni – non decida di sfidare la comunità internazionale con mosse provocatorie, che scatenenino una massiccia reazione militare occidentale o un’implosione del regime. Ma se il Consiglio transitorio nazionale – i ribelli insomma – riuscissero a tenere Bengasi e ad arrivare a una tregua, allora gli scenari si moltiplicherebbero. Il potere libico è infatti molto fragile, come ha dimostrato la lentezza della sua reazione alla rivolta: non solo perché i suoi vertici sono sclerotizzati e corrotti, ma perché è strutturalmente debole l’architettura stessa del «potere diretto del popolo», come recitano lo slogan della Jamahiriyya: poche istituzioni formali che non riescono a gestire adeguatamente l’amministrazione interna. Per di più, Gheddafi è pressoché isolato anche nel Medio Oriente: è la stessa Lega Araba ad aver chiesto l’intervento delle Nazioni Unite e Washington insiste perché la 'no ­fly zone' sia gestita con anche la partecipazione degli Stati arabi. Inoltre, se le norme imposte dall’Onu fossero interpretate in modo 'energico', magari forzando un poco la mano, come vorrebbero Francia e Gran Bretagna e come non dispiace alla stessa Nato, la repressione brutale di Tripoli potrebbe essere effettivamente fermata. Ma a quel punto avremmo due Libie: una occidentale arroccata attorno ai Gheddafi – e forte della grande liquidità di soldi di cui ancora dispone (nonostante i beni congelati) – e una orientale, a disputarsi i centri petroliferi. Uno stallo che rischia di prolungarsi con conseguenze poco ponderabili, ma certo estremamente pericolose. I libici – per gestire l’industria petrolifera – devono affidarsi ai tecnici stranieri: in una situazione di incertezza e pericolo, la produzione non potrà che risentirne, influendo su di un mercato già estremamente nervoso. Ma ancora peggiore è la conseguenza politica: due governi deboli e in lotta sullo stesso territorio significano di fatto nessun governo. E uno stato semi-fallito in una posizione così strategica è un rischio alto per l’Europa e altissimo per l’Italia: non solo per l’immigrazione clandestina, ma per la possibile attività di islamici radicali, usciti a migliaia dalle prigioni libiche durante queste settimane. La frattura in due della Libia, infine, avrebbe conseguenze anche sui rapporti interni fra i Paesi dell’Unione europea. Al di là delle preoccupazioni umanitarie, non è infatti difficile scorgere interessi economici molto più concreti e cinici. L’appoggio agli insorti da parte francese e britannica riflette anche il desiderio di favorire un cambio di regime per rientrare in un mercato energetico di straordinaria importanza da cui sono esclusi; e la prudenza italiana, il timore di perdere una 'riserva economica' su cui abbiamo investito molto. Nel mondo arabo qualcuno ipotizza un compromesso fra le parti, improbabile però dopo tutto il sangue versato. E proprio quel sangue sembra suggerire che – per quanto ci spaventi l’incertezza – ben pochi scenari sul dopo-Gheddafi sembrano peggiori di questo lungo 'durante'.
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