sabato 27 dicembre 2008
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Nei momenti di crisi occorre la voce credibile di un uomo che dica: teniamoci stretti. Come oc­corre, in una tempesta, un capitano che sapendo la rotta offra indica­zioni buone. In questa crisi inne­scata in buona parte dall’egoismo, il modo peggiore per reagire sareb­be altro egoismo. E non sarebbe so­luzione migliore lasciare che le co­se vadano senza cambiare nulla. Ma chi ha nel mondo l’autorevolezza per dire: teniamoci stretti? Per dire: senza solidarietà tutti finiamo a ma­re? Non possono dirlo in modo cre­dibile coloro che hanno fatto di un modello egoistico il proprio spun­to di vita e le proprie profezie di svi­luppo. E nemmeno coloro che a un modello egoistico opponevano fa­cili e irrealizzabili, e dunque peri­colose, utopie. Benedetto XVI lo può fare. In virtù della storia che rappresenta, e in virtù del nome che ha scelto di por­tare. Che è il nome del santo che, nel colmo di una crisi che investiva il mondo conosciuto, seppe con l’o­pera e con la domanda al Cielo es­sere punto di unità e di ripresa. Nel suo messaggio di Natale Urbi et Or­bi il Papa chiama gli uomini a ri­prendere uno spirito di autentica so­lidarietà. Egli parlando dell’appari­re di Gesù al mondo non parla di un mondo astratto. Evoca i nomi dei luoghi dove le crisi sono più acute: dallo Zimbabwe alla Terra Santa, dal Darfur alla Somalia, e i luoghi dove i diritti sono conculcati. La speran­za che porta quel piccolo germoglio di presenza di Dio apparso a Be­tlemme non è per un 'altro mon­do'. Ma per questo, segnato da di­visioni e da conflitti nazionali, so­ciali e personali le cui radici sono nella mancanza di solidarietà uma­na. Ci vuole la presenza di un Dio vivo, disarmato come un bambino, perché quella mancanza si conver­ta in desiderio di solidarietà, in di­sposizione al dialogo, al negoziato, alla considerazione reciproca. Ci vuole una conversione del cuore di fronte alla Bellezza di Gesù perché si allenti la presa nervosa che confi­da nel possesso di beni per cono­scere un’illusione di gioia. Dai tragi­ci frutti dell’egoismo non si esce con l’egoismo. Nell’augurio all’Italia, il Papa non a caso non fa giri di parole. Ha gli oc­chi per vedere e vede, come tutti co­loro che sono nel mondo 'reale' e non in quello delle inutili contrap­posizioni politiche. E non si attarda in vane accuse. Riflette sulla 'consi­derevole crisi' sociale che sta inve­stendo anche il nostro Paese, e invi­ta alla solidarietà reciproca. Mai co­me in questi tempi tale espressione deve essere letta senza retorica. La solidarietà non è un optional, una specie di buona azione per certi momenti speciali. O diviene lo sguardo con cui si osservano nor­malmente gli altri intorno a sé op­pure il rischio di lacerazioni sarà for­tissimo. E nella crisi non ci sarà qual­cuno che se la cava e qualcuno no. La barca andrà a fondo con tutti. Per fortuna c’è chi, dando voce ai tanti che testimoniano la solidarietà tutti i giorni, può richiamarci alla parte migliore di noi stessi, l’unica che potrà farci uscire dalla crisi. Il Papa non ha in mente una ricetta, perché non c’è 'una ricetta' per far uscire il mondo dalla crisi. In ogni ricetta, in ogni tentativo di governi, società, o famiglie o singoli, dovrà essere presente la misura della soli­darietà. Che nasce dal cuore del­l’uomo quando si rinnova. Altri­menti nessuna ricetta servirà se non a creare dopo una crisi altra più du­ra crisi, e dopo ingiustizia altra più profonda ingiustizia. La voce men­tre la barca è in pericolo c’è. Ora sta a noi ascoltare.
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