venerdì 7 marzo 2025
La collettiva sete di relazione, di contatto, di conoscenza di fronte alla mancanza che tutti proviamo per non poter vedere e ascoltare il Papa, ha preso la forma di preghiera...
In preghiera per papa Francesco

In preghiera per papa Francesco - Reuters

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Sì, è vero: noi esseri umani abbiamo bisogno di dare sostanza ai nostri sentimenti e alle nostre relazioni attraverso i sensi. Abbiamo bisogno di vedere, di sentire e di toccare. Abbiamo bisogno della conferma concreta che chi ci sta davanti si mette in gioco esattamente come lo facciamo noi. E così sentiamo l’urgenza di sapere che le persone a cui teniamo stanno bene e sono presenti per condividere la nostra avventura esistenziale. Forse per via di queste dinamiche – siamo fatti così – per noi è faticoso accettare di non poter vedere papa Francesco ormai da tre settimane. Da quel venerdì 14 febbraio, quando dopo le udienze della mattina è stato portato al Gemelli, non abbiamo più visto una sua fotografia, una sua immagine.

È nella natura umana cercare di colmare questo vuoto, questo senso di assenza e, forse, anche di smarrimento. Un’esperienza davanti alla quale è normale che scattino quei meccanismi psicologici ed esistenziali, che mettiamo in atto quando abbiamo bisogno di risposte. E il mondo in cui siamo immersi non ci aiuta certo a vivere con serenità la distanza: quante volte sentiamo che, quando comunichiamo in chat, non ci bastano più nemmeno le “spunte blu” che ci dicono che i nostri messaggi sono stati letti. Attendiamo con ansia la risposta e nel frattempo ci arrovelliamo nelle ipotesi, ci incartiamo nei nostri pensieri, inventiamo possibili spiegazioni, anche le più assurde.

In un tempo in cui tutto passa davanti a una telecamera, dove milioni di occhi elettronici spiano vite e accadimenti, dove tutto è trasmesso in diretta a distanza, facciamo fatica a rinunciare all’immagine, che ci confermi nelle nostre insicurezze o che risponda alla nostra curiosità.

E poco importa che quei simulacri digitali del mondo, ormai, possano essere artefatti, costruiti ad arte, manipolati: l’importante è dissetare la nostra inquietudine. E pazienza se le risposte, poi, sono delle semplificazioni che non rendono giustizia nemmeno a un frammento dei fatti.

Di fronte al vuoto di un Papa che non si mostra da ventuno giorni, allora, queste dinamiche assumono proporzioni collettive quasi planetarie. Sospinte dal vento del brusio dei social assurgono a fenomeni di massa in grado di portare le storpiature ad architravi esegetiche della realtà. E pazienza anche se le fonti ufficiali, le interviste, i bollettini ci danno conto giorno per giorno di ciò che accade nella stanza di papa Francesco. Pazienza se il suo magistero si fa sentire prima di tutto proprio attraverso il racconto della sua malattia e poi nei tanti messaggi contenuti nei testi firmati dallo stesso Pontefice e diffusi dalla Sala Stampa vaticana. Pazienza se tutto questo di fatto non solo ci fornisca l’agognata “spunta blu”, ma sia anche una vera e propria risposta alla nostra necessità di sapere che il Papa è ancora alla guida della Chiesa. La necessità di avere di più, la fame chimica di contenuti visivi per la nostra mente insinua il dubbio che sia tutto un grande complotto. E così lo dice il barista, lo si sente al mercato, sul lavoro, in treno: se non vediamo il Papa è perché è successo qualcosa di grave e “non ce lo dicono”.

Questo fenomeno è ben chiaro anche a chi si occupa di comunicazione nelle stanze vaticane, da dove ieri è arrivata una risposta netta: «Ognuno ha il diritto di scegliere come e quando farsi vedere» è stato detto senza mezzi termini. E, poi, le stesse fonti vaticane hanno voluto aggiungere una nota che dimostra la consapevolezza di tutte le deviazioni che serpeggiano tra le chiacchiere: «Per alcuni nessuna foto sarebbe sufficiente». E di certo non sarà sufficiente il breve audio diffuso ieri sera.

Di fronte a tutto questo vengono in mente i racconti evangelici dell’incontro tra il Risorto e i discepoli: della figura della Maddalena, che cerca con un gesto di trattenere fisicamente Cristo, o di san Tommaso, che non crede finché non tocca con mano il corpo di Gesù e i segni lasciati dalla crocifissione. Oppure tutte quelle volte in cui la gente cerca un contatto con il Figlio di Dio: da un lato c’è la misericordia del maestro, che capisce l’umana necessità di una relazione sostanziata dai sensi, dall’altro c’è il suo monito ad accoglierlo con fede, a fidarsi di lui e a colmare la distanza attraverso i gesti che celebrano la relazione con lui. Un mandato che si è trasformato nei riti della liturgia e nei segni della devozione, della preghiera.

Per fortuna la collettiva sete di relazione, di contatto, di conoscenza di fronte alla mancanza che tutti proviamo per non poter vedere e ascoltare papa Francesco, nei giorni ha preso la forma di un altro ben più potente movimento: quello della preghiera appunto. Il brusio delle chiacchiere ha il suo contraltare nel crescente brusio dell’invocazione al cielo al quale partecipano milioni di persone in tutto il mondo. Ed è la voce di questo popolo in preghiera che, come ci è stato raccontato da più testimoni, supera i vetri delle finestre del decimo piano del Gemelli e arriva fino ai piedi del letto del Papa, per il quale è una vera e propria consolazione. Ed è in questo movimento di preghiera e attesa, di offerta e di amore che trova pace quel bisogno di toccarsi e di vedersi. Come due cuori lontani si toccano e si vedono nell’amore condiviso.

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