martedì 30 giugno 2015
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Il Vangelo dell’Angelus, domenica, era Marco, 5, 23. Giairo, il capo della sinagoga, implora Gesù per la figlia morente. Gesù arriva in una casa dove si grida e si piange la morte di un bambino – di tutte le forme della morte, la più intollerabile. «Perché piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E, a un ordine –  talità, kum – la fanciulla si sveglia, e si alza.Dentro a queste parole è radicata la domanda che il Papa ha poi rivolto alla piazza: «Crediamo noi che Gesù ci può guarire e ci può risvegliare dalla morte?». E si dirà che certo, che è ovvio, che è la sostanza stessa della fede cristiana, una tale certezza. Eppure niente più di quanto teoricamente è "ovvio" subisce la corrosione del tempo, dei mondi che si succedono, delle culture dominanti. Come ha detto Francesco: «Questa fede, che per i primi cristiani era sicura, può appannarsi e farsi incerta».Perché in realtà la certezza della risurrezione, quand’anche si sia imparata da bambini, può anche restare lì in noi come un oggetto dimenticato in una soffitta, fino a quando non ci tocchi la lacerazione di un lutto. Quella certezza, quand’anche la si sia ereditata, può esser qualcosa di cui non si sente l’assoluto bisogno, fino a quando la morte non ci passi vicino: in qualcuno che ci manca irrimediabilmente, in un volto che non sopportiamo di pensare finito nel nulla. È per molti la morte di un nonno molto caro, di un compagno di scuola, di un fratello ciò che genera una ferita incolmabile, e fa tornare su quel passo di Marco: «Fanciulla, io ti dico, alzati». (E se quel lutto accade quando proprio si è bambini, può essere troppo forte l’urto di una morte che apparentemente resta morte – rigida, impietrita. Forse anzi il germe di molte fedi perdute passa di lì: per lo scandalo, agli occhi di un bambino, di un compagno, di una compagna morta, senza che nessuno le ordini: «Fanciulla, alzati»).Ma, ha chiesto il Papa, crediamo noi che Cristo ci può risvegliare dalla morte? Perché questa è la domanda nodale. Senza la risurrezione il cristianesimo sarebbe una nobile, generosa dottrina. Ma ogni giustizia, bontà, onestà, si infrangerebbe contro al muro cieco della morte: perché se quel figlio perso non verrà restituito, il più perfetto dei mondi è atrocemente ingiusto, e inutile. Perché, come dice San Paolo, «se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede».È vero, la fede nella risurrezione, nel tempo, può appannarsi e farsi incerta. E tuttavia proprio lo schiaffo cocente di un dolore può risvegliarne la domanda (come forse anche in Giairo, capo di una sinagoga: si sarebbe abbassato a implorare Cristo, se sua figlia fosse stata sana?). Fra quelli, invece, che vivono in pace, soddisfatti, questa certezza può anche farsi inoperosa e inutile. Prima dell’impatto con la morte si può sorridere, di risurrezione e paradiso. Come si sorride di ciò che non è scientificamente provato e dimostrabile. Come si sorride delle fiabe che si raccontano ai bambini. Ma dunque, noi crediamo che in Cristo risorgeremo? ci ha chiesto il Papa. L’eco di quelle parole dalla tv nelle strade silenziose del giorno di festa, nelle aule di scuola vuote, nelle finestre aperte delle periferie accaldate. Dobbiamo vivere nella certezza della risurrezione, ha detto Francesco. E ha aggiunto, con quel suo accento argentino che ci pare un italiano più caldo: «Lì ci incontreremo tutti. Tutti noi che siamo qui in piazza oggi, ci incontreremo nella casa del Padre».Ci incontreremo tutti, noi di questa piazza di Roma, città splendida e ladra, incantevole e cinica, sontuosa e misera. Ci incontreremo, noi di tutte le piazze, con le nostre stanchezze. E questa nostra strana ansia di felicità. Che meravigliosa, immensa certezza. Ci incontreremo tutti, in carne e ossa, nell’eternità. Chi altri oggi parla con questa audacia? Nel nostro mondo di amori effimeri, di brevi promesse, di smemoratezze, la sfrontata certezza cristiana deposta con fede granitica, una domenica d’estate, nel cuore di una grande millenaria città.
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