mercoledì 20 maggio 2015
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Che distanza corre oggi tra la realtà e la sua rappresentazione? Inevitabile chiederselo, quando la gente tocca con mano dati di fatto, esperienze e valori spesso molto differenti da ciò che si sentono raccontare. Per accorgersi della sempre più profonda faglia che separa l’esperienza dal suo riflesso pubblico non è necessario essere sociologi: basta fare un giro al supermercato, scambiare due parole con i vicini o gli altri genitori aspettando i figli fuori da scuola, prendere un caffè al bar, salire sul tram, scambiare due chiacchiere dopo la Messa domenicale, ascoltare colleghi, amici, parenti. Vivere tra la gente.Perché gli italiani sono immersi nel flusso di una comunicazione che racconta loro, numeri alla mano, della recessione alle spalle, ma il figlio (magari laureato) non trova ancora lavoro; leggono di interminabili trattative per sbrogliare il garbuglio delle migrazioni, ma poi vedono ancora anime disperate prendere a migliaia la via del mare pronte ad affrontare privazioni, rischi, la stessa morte; assistono alla diatriba sulla "buona scuola", e intanto molti di loro sperimentano lo sforzo titanico di vedersi riconosciuto l’elementare diritto di mandare avanti imprese educative libere e paritarie, pagandolo a caro prezzo; sorbiscono alluvioni pubblicitarie sul gioco d’azzardo proposto come innocente esperienza ludica, ma poi assistono alla rovina di chi si getta via tra slot e videopoker; sentono magnificare nuovi modelli coniugali insieme allo sfaldamento brevi manu del matrimonio come sospirata conquista, ma la vita gli dice che il patto fedele tra donna e uomo, la saldezza della famiglia e dei suoi legami fondativi, tirar grandi i figli con una mamma e un papà sono beni irrinunciabili, sacrificati i quali tutto s’infragilisce e troppo s’incattivisce.La narrazione della vita pretende di sostituirsi al suo svolgersi ordinario, e quanto più la quotidianità richiede fatica e sacrificio tanto più il racconto che le si sovrappone suona artefatto, roboante, fasullo. Ti dicono che bisogna crederci (e guai a non adeguarti alla vulgata corrente...), ma ogni mattina ti alzi e sperimenti il contrario: la vita è tenacemente fedele alla sua evidenza sperimentabile. Una distonia fastidiosa che occorre spezzare, quantomeno essendone consapevoli.È il composito orizzonte sociale e antropologico ripercorso ieri dal cardinale Bagnasco nella prolusione ai lavori dell’Assemblea della Cei che ha fatto seguito al franco e mobilitante discorso introduttivo del Papa di lunedì (e al dialogo aperto tra Francesco e i confratelli vescovi che lo ha completato). Un fatto è certo: i sensori demoscopici documentano che gli italiani si sono fatti guardinghi, non si fidano di scorciatoie ammiccanti e ottimismi a buon mercato. Resi accorti da una crisi che li ha estenuati, e che non molla la presa, esigono di vedere che la realtà vera torni a essere protagonista e ispiratrice di scelte e riferimenti. Che il lavoro, lo sviluppo, la famiglia, l’educazione, lo scioglimento del nodo migratorio non vengano scambiati con i loro succedanei. Un messaggio che dovrebbe allarmare i propagandisti di illusioni e ideologie, vendute per verità ma lontane dall’esistenza concreta.«La gente guarda e attende», ammonisce il presidente dei vescovi italiani, mettendo poi in guardia chi propaganda soluzioni e progressi «di parte e non urgenti»: «Nessuno faccia affidamento sull’arte di arrangiarsi», scandisce poi chiarendo così che è l’ora di soluzioni solide e non solo proclamate o apparenti. Finalmente sembra di scorgere «la volontà di affrontare i nodi antichi e nuovi del Paese», non a chiacchiere ma per il «loro superamento». Ed è proprio questa determinazione nuova, e le grandi aspettative che essa ha generato in una società tenace eppure allo stremo, a imporre di guardare in faccia la realtà, rispettandola per quello che è e che dice. Nuovi equilibri sociali ottenuti con strategie e progetti «arrangiati» non farebbero il bene del Paese. Per restituire speranza ora è più che mai necessario essere realisti.
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