mercoledì 6 gennaio 2010
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Caro Direttore, la lettera di don Bruno Bosatra pubblicata con il suo commento su Avvenire dello scorso 30 dicembre, ha suscitato una infervorata discussione durante un pranzo in famiglia. Nessuno ovviamente si è schierato a favore dell’impoverimento del lessico né ha parteggiato per il fenomeno di prosciugamento dell’ampiezza e della profondità della nostra lingua. Ciò che preoccupa tutti noi è l’atrofizzazione del pensiero: ricordiamo bene quella famosa scena del film «Palombella Rossa» nella quale il pallanuotista Moretti apostrofa, schiaffeggiando, l’incauta giornalista che lo incalza con luoghi comuni urlandole «ma come parli? Le parole sono importanti!». Per poter pensare ci vogliono parole e dove queste sono poche e scialbe... Detto questo ciò che abbiamo alla fine convenuto è che una lingua è cosa viva, che evolve, perché deve rappresentare la realtà, interpretarla e trasmetterla. E questa evoluzione, come sempre accade, incupisce e spaventa i custodi della tradizione. È come l’irruzione di una nuova tecnologia che complica la vita a chi non riesce a padroneggiarla al meglio e si difende «abbiamo sempre fatto in questo modo»! Sia chiaro, non intendo rivolgere né  questa né altre critiche a don Bosatra che mi sembra genuinamente preoccupato della perdita di contenuto più che della variazione di vocabolario. Ciò che vorrei far notare, magari per provocare altre risposte, magari proprio la sua, è che la lingua si arricchisce attingendo ad altri idiomi, direttamente o per assonanza. Perché lamentarsi sempre per l’uso di termini di altre lingue? Certamente è codardia usare locuzioni stereotipate come scorciatoria: vedi ad esempio weekend. Ma è profondità l’uso di vocaboli come committment, feedback, melancolie, charme, esperar, querer impossibili da tradurre nella loro ricchezza. La filosofia non ha fatto e fa uso di termini tedeschi, per me impronunciabili? E la musica di vocaboli italiani? Negare questa possibilità di esprimere il proprio pensiero con una completezza che solo la commistione di lingue può dare mi sembra pari cecità a coloro che, periodicamente anche su Avvenire, si stupiscono, lamentandosi, per il mancato attecchimento dell’esperanto. Come si può non capire che quella è una lingua creata a tavolino, non viva dunque, che non ha storia, evoluzione, pulsazioni? E la lingua oggi deve tenere dietro alla velocità nuova della vita, che – ci piaccia o no – ha subìto un’accelerazione impossibile da azzerare. Per cui perché non accettare un «tipo» al posto di «ad esempio»? Negli esempi portati da don Bruno spesso la sua perifrasi può essere sostituita da «come»: perché questo avrebbe più dignità di «tipo»? Difficile dire, concordo con don Bruno e lei, quando la dinamicità della lingua non è arricchimento, ma svuotamento. Allora punterei il dito sulla sconfitta quotidiana di tempi e modi del verbo, sul prosciugarsi dei sinonimi e sull’atrofia del vocabolario a disposizione. Qui forse la scuola può fare, e dire, molto.

Paolo Pugni, Milano

Caro Direttore,accolgo ben volentieri il suo invito a esprimere la mia opinione e a portare la mia esperienza in merito alla cattiva abitudine di usare oggi l’espressione «tipo», ben evidenziata in modo preoccupante (e a ragione) da don Bosatra. Sono un giovane docente di lettere, di ruolo, nei licei statali e devo ammettere che ho riscontrato anch’io, proprio quest’anno, nei miei alunni di IV ginnasio, questa brutta abitudine linguistica: l’espressione «tipo», preconfezionata e sempre uguale, è diventata un vero e proprio tormentone, quasi un tic ossessivo che risulta difficile estirpare dal frasario dei nostri ragazzi. Fortunatamente questa brutta locuzione viene usata per il momento solo nella lingua parlata (soprattutto tra ragazzi, ma anche tra discente e docente) e non in quella scritta. Per contrastare questo svilimento del linguaggio propongo tre soluzioni: leggere testi ben fatti e cercare di imitarli (non di "copiarli) badando a come sono scritti; ripristinare l’interrogazione orale per imparare a parlare in modo semplice e chiaro, stando alla larga dalle mode linguistiche; potenziare lo studio delle lingue classiche che da un contributo certo e rilevante all’educazione linguistica in senso lato e al dominio dei linguaggi settoriali, costituendo così il miglior antidoto nei confronti dell’«italiano povero», quello dei talk-show televisivi e della pubblicità, misero sul piano lessicale e banale su quello sintattico. Per esperienza devo però anche aggiungere che ho trovato alunni che sanno scrivere e lo sanno fare molto bene (anche tra i miei alunni di quest’anno). Non bisogna quindi fare di ogni erba un fascio ma cercare di comprendere l’indole naturale e le capacità intellettive di ogni scolaro per impostare un lavoro didattico individualizzato.

Marco Sampietro, Introbio (Lc)

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