giovedì 1 agosto 2013
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Marchionne versus Giovannini: chi ha ragione? «Qui è impossibile fare industria» afferma l’amministratore delegato della Fiat. Replica il ministro del Lavoro: «Nel nostro Paese ci sono moltissime aziende che anche in piena crisi economica chiudono i propri bilanci in utile anche conquistando importanti posizioni nei mercati mondiali di riferimento». Chi ha ragione?Quell’"impossibile" detto da Marchionne a valle della pronuncia della Corte Costituzionale che abrogando l’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori ha riaperto le porte del Lingotto alla Fiom è facilmente smentibile. Proprio pochi giorni fa abbiamo registrato il miglioramento del clima di fiducia delle imprese che è stato accompagnato dall’aumento della produzione industriale a luglio dello 0,2% su giugno, quando già era cresciuta dello 0,4%. Piccoli segnali di inversione di tendenza dopo anni di difficili performance economiche. Di certo, manifestazioni di volontà, oltre che di capacità, da parte del nostro variegato mondo imprenditoriale.È fuor di dubbio che in Germania le cose si siano messe al meglio, dopo i costi della riunificazione e le fatiche delle riforme degli anni Novanta, per merito di un chiaro e deciso indirizzo politico e per la storica disponibilità del locale sindacato dei lavoratori al coinvolgimento nella gestione aziendale con una visione di lungo periodo, l’unica che può tutelare i veri interessi dell’uomo del lavoro. Due fattori che in Italia mancano da troppo tempo e, se possibile, si stanno ulteriormente riducendo. Su questo è difficile dare torto a Marchionne: il nostro Paese è indietro anni luce e soprattutto non dimostra nei fatti di rendersene conto e di voler rapidamente cambiare, anzi. Proprio per questo, tuttavia, come non riconoscere il valore del coraggio, della grinta, delle capacità di chi fa impresa con fatica, e spesso con successo, fin dai tempi della sua prima vera industrializzazione di massa degli anni Sessanta? Molti di costoro non hanno la possibilità di scegliere tra Italia e Stati Uniti come base delle proprie attività. E anche chi a più riprese minaccia di abbandonare Lombardia e Nordest per le accoglienti e vicine Svizzera, Austria, Croazia e Slovenia, nella maggior parte dei casi poi rimane per ragioni di interesse, di vita pratica, ma anche affettive. Quelle grida, assai motivate, appaiono come giustificate richieste di attenzione più che vere e proprie decisioni razionali. Per non parlare di chi, attratto dai minori costi dell’Est europeo, aveva lì delocalizzato la produzione negli anni Novanta: molti di questi imprenditori per pura logica industriale, che qui non è il caso di dettagliare, hanno riportato quelle attività nel Paese in cui «è impossibile fare industria». Ed è bene ricordare che la stragrande maggioranza di queste imprese sono di piccola dimensione e mai hanno goduto nel corso della loro storia, più o meno lunga, di incentivi pubblici, nelle mille modalità in cui questi si sono manifestati nel corso degli anni. Non hanno dunque maturato alcun debito di riconoscenza nei confronti di un Paese che, pur contento della loro esistenza, le ha sempre guardate dall’alto in basso. È vero: in Italia si fa fatica a fare impresa perché, oltre alla normale complessità della competizione, si rischia di rimanere feriti dal fuoco amico della burocrazia pubblica, di una politica lontana, di una parte del sindacato ideologicamente ostile, di banche fuori dal mondo. Ma allora, cari imprenditori, quanto ancora più importante è il vostro lavoro e la vostra responsabilità: senza di voi questo Paese economicamente non ha futuro. Con o senza Marchionne.<+copyright>
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