sabato 16 ottobre 2010
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Se mentre siete sulla poltrona del dentista sentite della musica, sappiate che la state pagando. Come quando prendete un gelato o bevete un cappuccino al bar. Se nella sala c’è una televisione accesa o un impianto stereo in funzione, una piccola parte del prezzo del vostro cono o della vostra bevanda andrà a questo o quel cantante. Stessa cosa se siete dal parrucchiere, in palestra, al ristorante, in profumeria, in un negozio di abbigliamento, in albergo o in un parco di divertimento. Se sentite una canzone in sottofondo, sappiate che non è gratis. Né per il padrone del locale né per i clienti, i quali finiranno per pagarla in qualche modo nel conto. «Chiunque diffonde musica in un luogo pubblico deve pagare i compensi a favore degli artisti e dei produttori discografici», sostiene la Società consortile fonografici. Un principio ribadito ieri da una sentenza del Tribunale di Milano che ha condannato un dentista perché teneva una radio accesa nel suo studio, senza aver pagato i diritti alla Scf. E pazienza se quei diritti l’emittente su cui l’apparecchio radio era sintonizzato li aveva pagati già, sia alla Scf sia alla Siae. Per il giudice «la diffusione di musica all’interno di studi professionali privati rappresenta una forma di pubblica utilizzazione, perché i clienti sono considerabili pubblico». Quindi? Quindi la musica va (ri)pagata. Sempre. Persino se è usata in una segreteria telefonica o come attesa di un centralino. Pensate che all’inizio della sua battaglia, Scf aveva persino ottenuto che i bar pagassero una «quota musicale» in funzione dei frigoriferi che avevano nel locale. La tesi era: più frigoriferi hanno e più il locale ha «pubblico» che usufruisce della musica in sottofondo. Se state pensando di suggerire alla Scf di allestire dei contagelati o dei contacaffé nei bar per «misurare» meglio il pubblico, frenate la vostra creatività. Ora ci sono regole più normali: «tutti i negozianti devono pagare a seconda dei metri quadrati del loro esercizio commerciale». Le cifre? Dagli 80 ai 500 euro per i locali piccoli. Fino a qualche migliaio di euro per la grande distribuzione.Una piccola tassa, se paragonata a quanto – per esempio – incassa un dentista. Ma se la moltiplicate per i circa 40.000 bar, 20.000 alberghi e 5.000 ristoranti presenti in Italia, scoprirete che Scf nel 2009 ha incassato 37,2 milioni di euro e nel 2010 prevede di incassarne 50 milioni (grazie a dentisti, studi professionali, palestre e così via). Una cifra pari a un terzo dell’intero mercato discografico. E più del doppio di quanto fattura la musica venduta su internet e sui telefonini. Un’autentica manna dal cielo, visto che in Italia ormai si va al primo posto della hit parade con poco più di tremila album venduti a settimana. O più precisamente un ulteriore segnale della profonda crisi (anche di ruolo) della musica: sempre più presente nelle nostre vite come sottofondo da pagare (anche quando ci appare solo rumore) e sempre meno presente come arte per cui vale la pena di spendere direttamente. Cioè, consapevolmente. E non come «percentuale» su un caffé, un paio di pantaloni o un’otturazione.
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