sabato 2 agosto 2014
​Siamo quel che mangiamo o mangiamo quel che siamo? Risponde la neurogastronomia.
di Vittorio A. Sironi
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Un crescente interesse nello studio dei rapporti tra comportamenti alimentari e meccanismi cerebrali ha permesso, in questi ultimi anni, di comprendere le motivazioni che sono alla base delle nostre scelte dietetiche. Perché preferiamo i cibi dolci a quelli amari? Cosa ci spinge ad assumere più calorie di quelle necessarie al nostro fabbisogno giornaliero, facendoci così inevitabilmente aumentare di peso? Per quale ragione talvolta sentiamo un compulsivo bisogno di mangiare oppure viceversa siamo indotti a rifiutare di alimentarci?  L’analisi delle dinamiche che nascono dall’interazione tra cibo e cervello spiega anche le preferenze gastronomiche, le abitudini dietetiche e le culture alimentari tipiche di ogni popolo. Una nuova scienza, la neurogastronomia, apre oggi interessanti prospettive di ricerca in ambito nutrizionistico e medico. Il nostro cervello è programmato per mantenere un peso corporeo equilibrato, segnalando quando mangiare e quando smettere di farlo.  Tuttavia i cibi dolci e grassi inducono alcuni di noi a mangiare in eccesso. Più ne abbiamo e più ne vogliamo: una sensazione di tipo compulsivo, simile a quella che si verifica nella dipendenza da droghe, da alcool, da fumo. La preferenza che abbiamo nei confronti degli alimenti dolci e grassi, quelli più energetici, è il risultato del nostro passato evolutivo. Per migliaia e migliaia di anni l’uomo si è preoccupato non tanto di sopprime l’appetito, quanto di procurasi cibo per i tempi di magra. Alimenti dolci e grassi sono in grado di fornire grande energia per l’organismo e quindi il loro consumo è stato privilegiato nel corso della nostra storia evolutiva. I circuiti neuronali dell’alimentazione sono diventati in tal modo più efficaci a indurre l’assunzione di cibo quando siamo affamati piuttosto che a sopprimerne l’uso quando siamo sazi.  Anche il rifiuto dei cibi amari, presente soprattutto nei primi anni di vita, è il risultato di questo processo. È un meccanismo di autodifesa dell’organismo verso alimenti potenzialmente pericolosi (perché avariati) o addirittura letali (perché velenosi). Le zone cerebrali coinvolte nell’assunzione del cibo e nei processi che lo modulano, promuovendolo attraverso meccanismi di gratificazione o sopprimendolo provocando disgusto, sono fondamentalmente tre: l’ipotalamo, una struttura che è centro regolatore di molti processi metabolici, controllando l’introito del cibo e il consumo energetico; la corteccia prefrontale mediana, un’area che si trova nella parte anteriore del cervello, responsabile dell’elaborazione cognitiva dei processi affettivi ed emotivi legati al mangiare; il sistema libico, un insieme di connessioni profonde, comprendenti l’ippocampo e l’amigdala, deputate al controllo neurovegetativo e istintivo del comportamento alimentare. A livello neuronale la regolazione dei comportamenti nutrizionali è demandata a due tipi di cellule dell’ipotalamo: neuroni che promuovo l’assunzione di cibo (e l’incremento di peso) e neuroni che innescano la soppressione dell’appetito (e la perdita di peso).   Si è scoperto che il digiuno crea un aumento delle spine dendritiche (i ricevitori dei segnali) del primo tipo di neuroni inducendo l’assunzione di cibo.  Se invece la dieta è ipercalorica, ricca di grassi e di dolci, nascono addirittura dentro l’ipotalamo nuovi neuroni, determinando così un circolo vizioso: più si mangia e più sentiamo di avere fame. È la base neurobiologica dell’obesità. Se viceversa l’organismo assume pochi alimenti, i neuroni ipotalamici innescano un processo di autofagia compensatoria.  Quando non mangiamo, la fame induce alcuni neuroni del cervello a divorare pezzi di se stessi. Questo meccanismo costituisce un potente segnale di fame che spinge a mangiare e rappresenta un sistema utile per fornire energia nei momenti di carenza alimentare. Se tale processo però dura a lungo può indurre alterazioni permanenti delle reti neuronali e l’alimentazione non torna più nella norma. Così un soggetto può diventare anoressico. La neurogastronomia rivela come l’assunzione di cibo influenzi la plasticità neuronale rimodellando le reti cerebrali e come questi cambiamenti, se diventano stabili, a loro volta incidano profondamente sulle abitudini alimentari. Accanto a questi fini meccanismi, un ruolo non meno importante sul cervello è svolto da messaggeri chimici come ormoni e neuromediatori. Nell’ambito di un’alimentazione normale alcuni ormoni segnalano l’inizio e la fine del pasto. Gli ormoni della fame originanti dall’intestino allertano i circuiti dell’alimentazione nell’ipotalamo e stimolano i centri della ricompensa, quali l’area segmentale ventrale e lo striato, che aumentano il piacere associato al mangiare. Con il riempirsi dello stomaco e dell’intestino e la crescita del livello di nutrienti nel sangue, nell’ipotalamo e nei centri della ricompensa vengono liberati altri ormoni che sopprimono l’appetito e inibiscono il piacere rendendo il cibo meno desiderabile.  Nell’iperalimentazione è la rete della ricompensa a prendere il comando. I cibi grassi e zuccherini inducono lo striato a produrre endorfine, le sostanze cerebrali del benessere, e a rilasciare due specifici neurotrasmettitori, serotonina e dopamina, verso la corteccia prefrontale, l’area responsabile delle decisioni. In alcune persone queste azioni nella rete cerebrale della ricompensa causano obesità, prevalendo sui segnali ormonali che interrompono l’assunzione di cibo quando si è sazi. Ciò crea una forte motivazione per continuare a mangiare cibi con molte calorie nonostante vi sia la consapevolezza delle gravi conseguenze che ciò determina sulla salute. Anche se si dimostrerà vero che l’obesità è una 'dipendenza dal cibo' che si sviluppa con meccanismi simili a quelli delle altre dipendenze e vi saranno farmaci in grado di curarla, gli obesi dovranno sempre lottare contro situazioni ambientali causa di possibile ricaduta (essere circondati da familiari e amici che perseverano nell’iperalimentazione). La nostra società, satura di cibi dolci e grassi e di tentazioni, renderà dura la vita alle persone obese intenzionate a smettere di mangiare troppo.  I risultati più clamorosi della ricerca neurogastronomica riguardano la capacità del cibo di influenzare la plasticità neuronale. Non solo la quantità, ma anche la qualità del cibo sembra influenzare la struttura del nostro cervello. Una recente ricerca di un gruppo di studiosi guidati da Massimo Filippi al San Raffaele di Milano, ha dimostrato come soggetti vegetariani e vegani, mentre osservano uomini o scimmie che mangiano carne animale (bovina, suina, ovina), hanno una maggiore attivazione delle aree fronto-parietali e temporali, quelle dove maggiore è la presenza dei cosiddetti 'neuroni specchio', elementi correlati all’interazione sociale, rispetto a soggetti onnivori. Queste persone sviluppano cioè un maggior coinvolgimento emotivo quando gli alimenti sono di provenienza animale rispetto a chi è abituato a mangiare di tutto. Come se 'soffrissero' nel vedere specie con le quali vi è una discreta vicinanza filogenetica utilizzate come cibo. È il loro tipo di alimentazione che induce una maggiore 'sensibilità' nei confronti degli animali, oppure è viceversa il fatto che il loro cervello sia strutturato in un certo modo che li ha indotti a fare una scelta (consapevole?) vegetariana o vegana? Non lo sappiamo ancora con certezza, ma queste differenze empatiche legate al modo di alimentarsi sembrano aprire la porta al fatto che la scienza possa spiegare perché non solo il cibo, ma anche la cultura e la spiritualità sono nutrienti indispensabili per l’uomo. «L’uomo è ciò che mangia», affermava a metà Ottocento il filosofo Ludwig Feuerbach, nel senso cioè che l’uomo diventa ciò di cui si nutre. Ma «l’interrogativo cosa nutre la vita? - ha scritto recentemente l’Arcivescovo di Milano Angelo Scola riflettendo sul tema di Expo 2015 - porta a considerare questioni ecologiche globali (…), a una rinnovata concezione dell’essere uomini (…), a proporre adeguati stili di vita». In altre parole a un cambiamento culturale e a una ritrovata spiritualità in grado di diventare, essi stessi, cibo indispensabile per l’uomo, così che si possa riplasmare la nostra esistenza per 'nutrire il pianeta' in modo condiviso e sostenibile. Il cibo come nutrimento del corpo, la cultura come nutrimento della mente e la spiritualità come nutrimento dell’anima sono i cardini di una dinamica dimensione interattiva in grado di realizzare, se ben indirizzata, strategie dietetiche consapevoli e consolidate, capaci di coniugare armonicamente gusto e piacere con benessere, salute e sostenibilità in una prospettiva globale.
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