martedì 10 settembre 2013
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​L'obbligo di referto dei medici del pronto soccorso d’un ospedale milanese ha scoperchiato un delitto che sarebbe rimasto segreto e impunito, per la paura della stessa vittima forse, e certo per il silenzio di molti. È una storia brutta, è un delitto cattivo, quel massacrante pestaggio di uno studente nel cortile dell’Università statale di Milano a opera di una ventina di compagni. Due gli arrestati, adesso, dopo mesi di indagini, accusati del linciaggio, gli altri si stanno cercando, e contiamo che saranno identificati presto. La vicenda colpisce e provoca alcune riflessioni, dure e pensose. La prima è sulla ferocia. A parte l’aspetto vigliacco (venti contro uno), è l’immagine dei colpi che sfondano il cranio di un ragazzo già esanime a terra, sono le scarpe sulla faccia, le ossa del volto frantumate, la reiterazione della violenza sul corpo già torturato dopo il trascinamento dal cortile all’atrio dell’università, sono questi segmenti di crudeltà l’emersione di un profilo che non chiameremo bestiale per rispetto delle bestie. Ma no, sono gesti "umani", di umani civilizzati, di umani "che hanno studiato" (o stanno studiando, qualcuno almeno, da eterni studenti in una stazionaria inconcludenza?). Una ferocia così è una vendetta rituale, coatta. La vittima aveva toccato, si dice, un manifesto di contenuto politico, con un pennarello. Sfregio? Diverbio? Mi sembra di vedere lo scatto fulmineo della punizione della blasfemia, e il cranio sfondato e le scarpe sul viso a spaccare le ossa mi sembrano un delirante atto riparatorio, una vendetta che scimmiotta confusamente le emozioni del sacro e del sacrilegio intorno a un idolo politico. Se un’ideologia si fa culto, o peggio se volti umani si idolatrano (senza mai capire la lezione tragica della storia, che ha travolto e spezzato ogni volta le statue e i monumenti giganteschi degli idoli umani e ne ha svuotato i mausolei) l’uomo si acceca. La seconda riflessione coglie il silenzio della vittima. Due settimane a casa, senza dir niente. Poi, per non morire, in ospedale. Perché questa paura? Come potergli dire che l’avremmo tutti difeso, aiutato? Oppure no, la realtà è diversa, e restano sullo sfondo i molti che sapevano, che avevano visto, e che forse, si dice, sono stati minacciati. Così c’è voluto l’ospedale di due settimane dopo il fatto, col suo allarme, a dare la sveglia. Vien da pensare alla radice del problema; a quell’ombra scura del silenzio, se non proprio dell’omertà, che accompagna i fenomeni di sopraffazione socialmente tollerata, quale si riscontra nei ricorrenti fenomeni di "occupazione" illegale. L’illegalità ideologizzata, in una democrazia, è un fenomeno a suo modo mafioso, fatto di graduabili violenze, fino al punto del sangue. Dopo decenni di lezioni, patite e incomprese, è tempo di liberarci dalla paura di questi idolatri fanatici e violenti, di tenerli a freno con giusti controlli d’anticipo, come si fa ai tornelli d’ingresso degli stadi con la frangia imbecille degli ultras. E chissà se un controllo incrociato non riveli che si tratta, a volte, delle stesse persone. La terza riflessione è la più angustiosa, perché riguarda il da farsi dopo i conti con la giustizia della legge. Come cambiare cronaca, secondo cambio di storia, cioè cambio di vita. C’è uno spunto che par lucido, se è vero che gli arrestati non sono degli sconosciuti, uno di loro è un "no-tav" di quelli già denunciati. Non è denunciabile l’essere "no-tav" (nell’opinione, nella persuasione, nell’attività politica) è denunciabile la violenza, che riguardi "no-tav" o altra cosa. Questo "profilo" violento e illegale, quando ricorre dentro la città degli studi, dentro la città del lavoro, dentro la città degli uomini, è una presenza da sconfiggere, anzi da guarire come si guarisce una piaga. Io non ho fiducia in una mera punizione che la estirpi, ci vorrebbe insieme un’educazione persuasiva e dura che la converta, almeno in futuro. Chi ha messo la scarpa sulla faccia spaccata d’un uomo ha bisogno, dentro e dopo lo staffile della pena, d’una spina in cuore che gli cambi la vita.
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