sabato 5 aprile 2014
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Dovrebbero bastare i numeri ricordati ieri dal procuratore capo di Agrigento – quei 16mila fascicoli aperti nel 2013 dal suo ufficio per il reato di «irregolare ingresso e presenza nel territorio dello Stato» – per confermare quanto “Avvenire” sostiene da sempre. Il reato di «clandestinità» (introdotto in Italia nel 2009 e cancellato dalla legge delega approvata giovedì scorso) era non solo iniquo ma anche inutile. Ingiusto, perché metteva sullo stesso piano dei delinquenti tutti quegli stranieri che vengono nel nostro Paese in cerca di lavoro. Inutile, perché è illusorio mettere in moto un meccanismo lento e costoso come il processo penale per fronteggiare un fenomeno di massa come l’immigrazione irregolare (per applicare, in caso di condanna, un’ammenda di qualche migliaio di euro che nessuno ha mai pagato). Quel reato era solo un manifesto ideologico. E dunque la sua cancellazione è una buona notizia. Tanto più che – come pure ricordava il magistrato agrigentino – non essendo più imputato, il migrante irregolare potrà essere sentito come testimone nei processi contro i trafficanti di esseri umani. Ma non illudiamoci che questa cancellazione risolva tutti i drammi legati all’immigrazione.Ancora una volta, dobbiamo distinguere il problema delle norme che regolano l’ingresso in Italia per motivi di lavoro dal problema dei profughi che dal Nord Africa guardano all’Europa come alla loro salvezza. Il primo problema si può risolvere soltanto favorendo l’immigrazione regolare: dandole regole precise, procedure snelle; in tale modo “prosciugando” l’area di quella che viene chiamata “clandestinità”, sottraendovi tutti coloro che magari un lavoro già l’han trovato e vorrebbero essere regolari ma non ci riescono per la farraginosità delle nostre leggi. E accompagnando questa politica con un contrasto severo dei reati predatori, prestando più attenzione alle richieste di sicurezza che vengono soprattutto dai ceti più deboli ed esposti alla criminalità di strada. Il problema dei profughi – che fuggono guerre e persecuzioni – è invece molto più complesso. L’ha ben delineato il convegno tenutosi a Palermo nei giorni scorsi, di cui “Avvenire” di ieri ha fornito un ampio resoconto. Se è vero che l’Italia è la porta dell’Europa verso l’Africa, allora il cardine di qualunque iniziativa deve essere un’assunzione di responsabilità dell’Europa in quanto tale. L’Italia ha bisogno di più Europa ma l’Europa non può lasciare sola l’Italia.È il momento di dimostrare che l’Europa non è soltanto libertà dei mercati e rigore dei conti economici, ma soggetto politico capace di fronteggiare un fenomeno epocale che riguarda tutto il continente. Affrontando, con la forza diplomatica che solo l’Europa unita può avere, i complessi problemi internazionali dei rapporti con i Paesi da dove i profughi partono (problemi aggravati dalla fragilità delle istituzioni locali e dal potere esercitato dai clan). Mirando, dunque, a una comune gestione delle frontiere marittime e a un’unitaria richiesta di cooperazione ai governi degli Stati africani. Ai quali – sia chiaro! – non dobbiamo attribuire, com’è avvenuto in passato, il “lavoro sporco” di far morire di sete i profughi nel deserto. Ma chiedere di costituire una missione che, sotto le bandiere dell’Unione Europea e in collaborazione con l’Acnur, organizzi, in Nord Africa – in continuità con la già esistente ed efficiente operazione di soccorso Mare nostrum – luoghi civili di soccorso e di raccolta; e canali umanitari di transito che facciano arrivare in sicurezza, nel nostro continente, i profughi cui si riconosca il diritto d’asilo, distribuendoli poi nei vari Paesi dell’Unione.Ciò significa, in primo luogo – come giustamente ha rivendicato il nostro ministro dell’Interno Alfano – modificare il trattato di Dublino del 2003, secondo cui lo Stato dell’Unione competente per l’esame della domanda d’asilo è quello in cui il richiedente ha messo piede per la prima volta. E sappiamo quanto questa regola sia penalizzante per l’Italia, con i suoi incontrollabili confini marittimi: tanto più se consideriamo che molti dei profughi che sbarcano sulle nostre coste vorrebbero invece raggiungere altri Paesi europei. Che il semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea sia, dopo i proclami e i ritardi accumulati negli ultimi nove mesi, l’occasione per arrivare a questa modifica. Quel «genuino patriottismo e amore per il suo Paese», che Tony Blair ha riconosciuto al nostro premier Matteo Renzi dopo l’incontro dei giorni scorsi, ha davanti a sé un ottimo banco di prova.
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