giovedì 2 settembre 2010
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Caro direttore,sono suor Roberta Vinerba, le scrivo perché sono appena tornata da un pellegrinaggio in Terra Santa insieme a una trentina di giovani dell’Oratorio "Giovanni Paolo II" di Perugia, con i quali abbiamo vissuto un’esperienza che ci ha profondamente toccati. Non era certo la prima volta che mi recavo in Israele, ma questa volta abbiamo voluto fare un pellegrinaggio diverso dallo stile "classico". Abbiamo scelto di alloggiare a Betlemme, al di là del muro che chiude, come in una riserva, il popolo palestinese. Ci siamo mossi a piedi e con i mezzi pubblici, abbiamo scelto anche di trascorrere due giorni a Taybe, paese interamente cristiano situato sulle montagne di Samaria in segno di solidarietà con le comunità cristiane di Terra Santa duramente provate dalla situazione socio-politica attuale. Pensiamo che essere pellegrini significhi anche esserlo "dentro" le contraddizioni attuali di questa terra martoriata. Perché le scrivo? Perché per uscire e rientrare da Betlemme ogni giorno ci siamo messi in fila come tutti quelli che devono uscire o rientrare da quella cittadina e pazientemente atteso che i soldati addetti al check-point ci controllassero e ci facessero passare. Un’esperienza che ci ha travolti: assistere al triste spettacolo di  uomini, donne e bambini umiliati nei loro diritti fondamentali, in fila entro uno strettissimo corridoio segnato dalle sbarre, esposti al capriccio del militare di turno che può decidere, una mattina (è successo) di chiudere il check-point per ore con il solo scopo di causare ulteriore disagio a quelli che aspettano di passare per andare a lavorare, è terribile. Un popolo sta morendo, al di là del muro; a essi è impedito un lavoro regolare (chi assume operai che ogni mattina non sanno se e quando potranno recarsi al lavoro?) ed è impedita la vita quotidiana (visite mediche e qualunque commissione sono sottoposte al varco – consentito o no – del muro). Ci siamo chiesti: a chi giova questo massacro? Come cristiani ci siamo interrogati su quello che vivevamo, ben consapevoli che quel muro che opprime è l’epifania dei muri che ci sono nel cuore di ogni uomo, che quello che abbiamo vissuto è struttura di peccato che opprime l’innocente e che a questa struttura di peccato nessuno di noi è estraneo. Non si tratta qui di assumere posizioni ideologiche, ma cristianamente di stare dalla parte dell’oppresso e in questo caso l’oppresso è il popolo palestinese e anche, me lo consenta, il popolo israeliano, condannato se continua a perseguire questa politica, al terribile giudizio della storia. Se questi due popoli non saranno aiutati a dialogare, non ci sarà mai la pace, ma inevitabilmente la reciproca distruzione. Le scrivo anche perché vorrei rivolgere un appello a quanti si occupano di pastorale giovanile, come me: andiamo, con i nostri giovani, dentro gli spazi martoriati del nostro tempo per strapparli dalla stupida tronfia indifferenza a cui il mondo occidentale li condanna, anzi, "ci" condanna, per scamparci dal pericolo di una fede individualista che non sa costruire la storia.

suor Roberta Vinerba

La sua testimonianza–reportage, cara suor Roberta, è vigorosa e coinvolgente. La sua analisi è accorata eppure lucida. Quel lungo muro – chiamiamolo pure, con la morte nel cuore, il Muro di Betlemme – è figlio di una doppia ingiustizia ed è segno della doppia minaccia di distruzione che grava sui popoli di Terra Santa. È un muro difensivo che Israele ha costruito per fermare le stragi provocate da attentatori–kamikaze sul suo territorio e che le stragi non ferma definitivamente, perché un muro non può avvolgere tutto e tutti e perché se non si muore in un attentato a Tel Aviv, si muore (come è accaduto ieri) in un agguato nella cisgiordana Hebron. Il muro difensivo è, poi, diventato – com’era inevitabile – una permanente offensiva che fa strage della vita quotidiana e della speranza di futuro di tanti innocenti palestinesi. Su questo, cara sorella, lei ha detto tutto e assai bene.Ebbene, non si possono chiudere gli occhi e non ci si deve arrendere. L’unica alternativa ragionevole e giusta a tutto ciò può venire dal dialogo che proprio oggi, a Washington, comincerà faticosamente a riannodarsi formalmente tra i rappresentanti di Israele e dell’Autorità di Palestina. L’unico sbocco sensato è la convivenza dei due Stati e dei due popoli. L’unico obiettivo comprensibile e condivisibile è la fine dell’oppressione e dell’odio generati dalla guerra. I cristiani di Terra Santa, prezioso vaso d’argilla tra i vasi di ferro di eserciti e milizie contrapposte, hanno da portare la croce e da dire e dimostrare, col nostro sostegno, che quest’altra via c’è ed è possibile. Come ricordò al mondo Benedetto XVI – dopo aver varcato e costeggiato, nel maggio di un anno fa, proprio a Betlemme, quell’impressionante segno di divisione, di contrapposizione e di paura – nessuna barriera tra gli esseri umani è eterna. E «i muri si abbattono».
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