sabato 15 aprile 2017
Diritti umani, la stretta di Pechino in vista del Congresso. Le Ong locali e straniere e le diverse fedi stanno avendo un ruolo significativo nelle strategie del potere
I cristiani, il Tibet, gli attivisti Così sale l'oppressione cinese
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Pechino da un lato apre a un rapporto più maturo con la comunità internazionale, dall’altro sta aggiornando le sue politiche repressive in vista del congresso del Partito comunista che si terrà a ottobre, e che confermerà nel ruolo di leader indiscusso il segretario del partito e presidente della repubblica Xi Jinping. In questo senso le Ong locali e straniere, gli attivisti e le diverse fedi, compresa quella cristiana, stanno avendo un ruolo significativo nelle strategie del potere e ne subiscono le necessità di controllo. Un quadro che desta non poche preoccupazioni. La decisione delle autorità cinesi di cancellare il 10 aprile il visto concesso alla taiwanese Li Ching-yu per recarsi a Pechino e cercare notizie certe sulla sorte del marito Li Mingche, scomparso il 19 marzo dopo essere sbarcato all’aeroporto di Macau con l’intenzione di incontrare nella limitrofa città di Zhuhai attivisti per i diritti umani, potrebbe essere forse una mossa punitiva di Pechino verso Li, ma sicuramente non favorisce un rapporto più disteso tra la dirigenza cinese e la realtà internazionale che già vede molteplici segnali di crisi. Ad aggravarlo, nei giorni scorsi le autorità hanno fatto sapere di avere predisposto ricompense per i cittadini che contribuiranno a smascherare spie straniere. Una mossa che ha sollevato più di qualche perplessità tra le diplomazie accreditate a Pechino.

Un caso che sembrerebbe marginale quello del 42enne attivista taiwanese per i diritti umani e ex dipendente del Partito democratico progressista al governo a Taipei, che per molti è anche un segnale dell’intolleranza di Pechino verso le organizzazioni straniere che al suo interno cercano di coprire spazi di necessità ma anche di favorire una società civile che del sistema non cerca la fine ma la sua evoluzione. Di lui si sta occupando anche l’Associazione taiwanese per i Diritti umani. La sua responsabile, E-Ling Chiu conferma che «Li partecipava al dibattito sulla storia e l’esperienza democratica di Taiwan attraverso WeChat (maggiore iniziativa di messaggistica made in China). Se gli amici cinesi erano interessati a conoscere di più attraverso la lettura di libri, Li glieli inviava».

Una attività, quindi, forse borderline ma difficilmente nel segno della destabilizzazione, la cui repressione va forse vista anche nello stallo al dialogo bilaterale tra Cina e Taiwan dopo il rifiuto lo scorso giugno da parte della presidente taiwanese Tsai Ing-wen di sostenere il principio di «un Paese due sistemi» che implica la fine dei restanti rapporti diplomatici di Taipei con governi stranieri. La percezione, tuttavia, è che la vicenda di Li sia pure un avvertimento per le organizzazioni non governative attive in Cina, in questo modo allertare che in futuro i loro operatori potrebbero essere arrestati senza alcun preavviso o motivazione formale. Sicuramente in contatto con le reti di impegno civile, è il cittadino svedese, Peter Dahlin, fondatore dell’organizzazione China Action da tempo presente con una propria sede in Cina e pure impegnata nel sostegno legale ai difensori dei diritti umani, che il 4 gennaio è stato arrestato, accusato di essere parte di una cospirazione per destabilizzare il Paese che avrebbe avrebbe 'confessato' agli inquirenti.

Distanti dalle preoccupazioni di stabilità del regime, anche gli investitori stranieri denunciano in modo crescente il clima intimidatorio in cui si trovano ora a agire nel Paese, mentre continuano gli arresti di attivisti e avvocati - in particolare quelli legati all’organizzazione legale Fengrui attiva nella tutela dei diritti di molti incarcerati - a volte senza accuse formali o processati per il loro impegno civile. Sarebbero 280 associati e simpatizzanti del gruppo ora in carcere, ma le campagne di intimidazione e di arresti si intensificano e differenziano. A conferma che le metodiche repressive si aggiornano ma restano di assoluto rilievo nel rapporto tra potere e società cinese, incluso l’ambito religioso.

Le infiltrazioni del jhadismo internazionale stanno dando ulteriori pretesti per negare ampi spazi di pratica religiosa ai musulmani maggioritari nell’immensa e strategica provincia autonoma occidentale dello Xinjiang. Qui l’impressionante dispiegamento di forze militari e polizia armata va accentuando il malcontento dei musulmani di etnia uighura per un controllo che ignora o sottomette anche le istanze religiose. Situazione simile per il Tibet, dove a sottolineare la difficile situazione della popolazione di fede buddhista sono gli almeno 140 casi di auto-immolazione con il fuoco dal 2009. Il primo caso del 2017, quello del contadino 24enne Pema Gyaltsen il 18 marzo, e la distruzione in corso di uno dei più importanti centri culturali tibetani, l’Istituto buddhista di Larung Gar nella regione autonoma del Ganzi, provincia meridionale di Sichuan, si inserisce in una nuova Primavera di tensioni aperta il 10 marzo.

Una data che ricorda il fallito tentativo dei tibetani di riappropriarsi dell’indipendenza nel 1959. Significativamente, un recente rapporto dell’organizzazione statunitense Freedom House indica come la persecuzione che riguarda le religioni in Cina, inclusa quella cristiana, si stia 'intensificando'. «Con metodi violenti e nonviolenti, le politiche del partito egemone sono applicate per bloccare la rapida crescita delle comunità religiose e per eliminare certi credi o pratiche», segnala il rapporto. Dall’ascesa di Xi Jinping alla leadership del Partito comunista nel 2012, ricorda ancora Freedom House, «l’oppressione è cresciuta in tutti i livelli della società nonostante la resistenza diffusa dei credenti di ogni fede». La cristianità cinese vive anche questo tempo di Pasqua nell’incertezza e, in alcuni ambiti, nella repressione. Non senza resistenze, come mostrano le tensioni delle ultime settimane nella città di Wenzhou, capoluogo della provincia sud-orientale dello Zhejiang. Molti tra il milione di cristiani in quella che viene soprannominata 'Gerusalemme cinese' si sono opposti alla delibera dello scorso anno di installare nelle chiese videocamere di sorveglianza, ufficialmente «per combattere il terrorismo e per ragioni di sicurezza». Nell’ultimo triennio, lo Zhejiang, è diventata il centro delle pressioni più forti da parte delle autorità di sicurezza contro le comunità di battezzati, con la demolizione documentata di almeno venti luoghi di culto protestanti e cattolici e la rimozione di un migliaio di croci dagli edifici. Centinaia i fedeli arrestati per essersi opposti alle iniziative di sgombero o di abbattimento. La Pasqua, diventata in Cina un ulteriore spunto di attrazione e business con località eredi della tradizione cristiana che propongono itinerari ad hoc ai visitatori e alberghi che propagandano stanze a tema e elaborati menù ispirati all’evento, resta centrale nel calendario dei 12 milioni di cattolici cinesi. Ancora una volta, però, ai margini di un sistema che nega un ruolo alla fede e a diritti universalmente riconosciuti.

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