Gli ordini dati dallo Stato e gli ordini interni della Chiesa
domenica 22 marzo 2020

In tempi di crisi In questi tempi calamitosi, col “morbo che infuria” e con interdizioni che pesantemente incidono sulla sfera delle libertà personali, non pochi cattolici si chiedono se siano legittime le sospensioni su tutto il territorio nazionale, in luogo pubblico o privato, anche delle cerimonie religiose, disposte come noto da provvedimenti governativi. Il quesito ovviamente esprime il sacrificio ulteriore cui è soggetto, rispetto alla generalità dei cittadini, il credente che si vede privato di quotidiani strumenti di sostegno non solo della propria vita spirituale, ma dello stesso cammino quotidiano nelle tormentate realtà temporali. Il quesito presenta anche un profilo giuridico: secondario quanto si vuole, ma pure sussistente, al quale pare opportuno dare una risposta. La quale può partire dalla distinzione tra procedure di adozione dei provvedimenti in questione e merito degli stessi.

Dal punto di vista procedimentale, è apparso a qualcuno singolare che l’autorità statale abbia disposto il fermo delle attività religiose, perché il principio sommo che caratterizza il nostro Stato, quello della laicità, interdirebbe di per sé interventi dei poteri secolari nella vita delle confessioni religiose. Hanno dunque fatto bene le autorità ecclesiastiche a livello nazionale e locale, nella condivisione delle giuste preoccupazioni delle autorità civili, a disporre con propri autonomi provvedimenti la sospensione di funzioni religiose con partecipazione di popolo (ma lasciando aperte le chiese).

È però il profilo sostanziale quello davvero rilevante. E da questo punto di vista si deve ricordare che esiste un diritto fondamentale dei fedeli a ricevere dai propri pastori gli aiuti derivanti dai beni spirituali della Chiesa, in particolare i sacramenti (can. 213 del Codice canonico). A voler essere pedanti, prima ancora del diritto si dovrebbe parlare di un dovere fondamentale del fedele in tal senso: soprattutto per quanto attiene alla penitenza e all’eucaristia.

Ma naturalmente il diritto ai sacramenti è soggetto a determinate condizioni, nel senso che essi non possono essere negati a quanti siano ben disposti a riceverli, non abbiano una proibizione giuridica di riceverli, e inoltre – secondo quanto recita il can. 843 § 1 – siano chiesti «opportunamente». A ben vedere, è in questo «opportunamente» la chiave di risposta al quesito prospettato. Nel senso che l’esercizio del diritto al sacramento – e quindi l’obbligo per il pastore di amministrarlo – è legato a circostanze soggettive e oggettive, di tempo e di luogo. In particolare, insieme al bene spirituale del fedele, si deve tenere conto anche di situazioni come quella presente, in cui è in gioco il bene salute e il bene vita dei consociati, oltre che il bene comune dell’intera società, che il diffondersi del coronavirus attacca sotto molti profili: da quelli relazionali, a quelli lavorativi, economici culturali. Si tratta di beni tutti che il magistero sociale della Chiesa ha più volte sottolineato vedendone la connessione con diritti naturali. D’altra parte, a fronte dell’affermazione del diritto di libertà religiosa quale inviolabile spettanza dell’uomo, come singolo e nelle comunità religiose, la stessa dottrina cattolica considera che in determinate evenienze l’autorità civile possa legittimamente porre dei limiti al relativo esercizio.

Come afferma la dichiarazione del Concilio Vaticano II Dignitatis humanae (n. 7), il criterio per legittimare un intervento limitativo dell’esercizio della libertà religiosa è che esso sia conforme all’ordine morale oggettivo, cioè risponda a un ordine pubblico informato a giustizia. A questo fa eco, tra l’altro, il principio morale della responsabilità personale e sociale nell’esercizio dei diritti, anche quelli qualificabili come naturali o fondamentali.

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