mercoledì 26 marzo 2014
Sudcorea, invisibile (e inatteso) dramma della povertà
di Stefano Vecchia
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Samsung e Gangnam sembrano essere i due estremi tra cui si muove la Corea del Sud agli occhi del mondo. La prima è un’azienda con fatturato simile al bilancio di un Paese di media grandezza, vero simbolo del successo economico che ha portato la parte meridionale della divisa nazione coreana a collocarsi di prepotenza al terzo posto tra le economie asiatiche e al dodicesimo nel mondo. Il secondo, la Beverly Hills di Seul, il quartiere benestante e trendy cantato nel travolgente successo di Psy, che proietta però le sue luci sulla più squallida baraccopoli del Paese, Guryong, visibile al di là di un’autostrada a sei corsie. Un’area, Gangnam, che promuove la "korean wave", inondando l’Oriente con bellezza esteriore, vitalità esasperata ed espressioni che spopolano soprattutto in Paesi che vogliono ignorare i propri problemi, grazie a una cultura tesa a dare certezze tranquillizzanti (ma per nulla solide).
Quelle certezze lontane dai dati macroeconomici di questi tempi non facili. Certamente, lontani dallo squallore di Guryong, i cui 2.000 residenti, reduci di un insediamento creato nel 1988 per ripulire dai senza fissa dimora altre aree della capitale interessate dalle Olimpiadi, vivono più che il "miracolo coreano" quello della propria sopravvivenza quotidiana. I 30 ettari di uno slum da terzo mondo nel cuore di una metropoli-simbolo dell’Asia sono – segnala Kim Kyo-seong, docente di Studi sociali all’università Chung-Ang – «il simbolo inequivocabile delle ineguaglianze nella nostra società»; gli anziani che ne costituiscono la maggioranza della popolazione rappresentano la «concentrazione di quanto vi è di sbagliato oggi nella società sudcoreana». Nessun sostegno governativo; niente fognature; gas ed elettricità per pochi nell’inverno rigido di questo "buco nero" della metropoli sfavillante. Incendi e alluvioni a ricordare di tanto in tanto che la precarietà quotidiana può diventare mancanza assoluta di tutto.
La presidenza iniziata un anno fa della conservatrice moderata Park Geun-hye coincide con un tempo in cui con maggiore urgenza sembrano emergere le contraddizioni di una società tecnologicamente evoluta, ma socialmente conservatrice. La tradizionale rigidità gerarchica frutto di una radicata etica confuciana si manifesta ancora nella vita di ogni giorno, nell’educazione, nei luoghi di lavoro, in politica. Come avverte anche la Chiesa sudcoreana per bocca del presidente della Conferenza episcopale, monsignor Peter Kang U-il, «status sociale e reddito spesso coincidono e dominano sui cittadini meno favoriti; all’orizzonte si stagliano concreti disagi e fenomeni di emarginazione finora ignorati». Gli anziani che hanno concretizzato il miracolo economico con decenni di sacrifici personali e collettivi sono i primi a pagare l’inadeguatezza delle politiche sociali e la concentrazione di risorse in ambiti considerati più strategici: la promozione dell’azienda-Paese, il sostegno ai grandi conglomerati produttivi e finanziari, le Forze armate, i rapporti con il Nord.Oggi almeno 1,2 milioni di sudcoreani, circa il 20 per cento della popolazione anziana, vive, e spesso muore, in solitudine. Anche per l’introduzione tardiva di un sistema pensionistico nazionale, molti ultrasessantenni non hanno risorse proprie, mentre il tradizionale sostegno da parte dei figli e dei parenti va diminuendo nel contrasto sempre più evidente tra nuovi stili di vita e tradizione. Negli ultimi 15 anni la percentuale dei giovani che ritengono loro dovere occuparsi dei genitori è scesa dal 90 al 37 per cento. Allo stesso tempo, il governo è stato assai lento nel creare strutture alternative. Il sistema pensionistico in vigore dal 1988 interessa solo un terzo degli anziani, con somme sovente insufficienti. Colpisce vedere tanti pensionati raccogliere carta, plastica e rottami per le strade di Seul al fine di mera sopravvivenza; colpisce ma non stupisce che il tasso di suicidi tra gli anziani sudcoreani sia triplicato dal 2000 arrivando a sfiorare i 5.000 l’anno.
«La mancanza di equità e di sostenibilità, che sono i pilastri del consenso verso le riforme pensionistiche, rappresenta un forte ostacolo alla loro realizzazione», segnalava qualche tempo fa Park Dong-hyun, economista-capo della Banca asiatica per lo sviluppo. La Corea del Sud vede un invecchiamento della popolazione tra i più accelerati tra le nazioni industrializzate: l’11,8% di anziani nel 2012 dal 7,2% del 2002; erano solo il 3,8% del 1980. Una conseguenza del tasso di natalità, sceso in un trentennio da sei figli per donna fertile a uno soltanto. Il rallentamento e il necessario assestamento dell’economia dopo anni di crescita incontrollata e davanti alla crisi globale evidenziano ancor di più le ombre del sistema. Nel 2013, il 13% dei sudcoreani ha visto accumularsi debiti al punto da non potere più far fronte ai propri impegni. In azione, ancora logiche confuciane che incentivano obbedienza, partecipazione e parsimonia, ma non l’elevazione individuale, vista con vergogna. Questa situazione rischia di negare a Park Geun-hye, prima donna a diventare capo dello Stato nella storia coreana, l’obiettivo di far crescere la classe media fino a comprendere il 70% dei sudcoreani entro la fine del suo mandato nel 2018.
Come suggeriscono gli esperti, occorrono non solo buone intenzioni e buone leggi, ma anche capitali, investimenti sulle risorse umane, maggiori contributi a educazione e welfare. Serve anche allentare la morsa degli immensi conglomerati produttivi (chaebol), sovente a conduzione familiare come Daewoo (sciolto nel 1999), Hyundai, Lg, Lotte, Samsung, Sk, che nella storia moderna, pur evolvendosi, hanno condizionato una larga parte delle scelte commerciali e strategiche del Paese. Aziende che alternano paternalismo, incentivi e coercizione sui lavoratori, in stretta connessione con interessi politici che solo recentemente vanno incrinandosi. Nel cambiamento c’è indubbiamente un ruolo rilevante per le religioni, in primis quella cristiana. «La secolarizzazione culturale ha minato seriamente il ruolo della fede nella società e questo chiama a una sincera riflessione e a un rinnovato impegno», segnala il reverendo Joseph Sun-yong Park, vice-direttore dell’Istituto pastorale cattolico di Corea. Negli ultimi decenni, il cristianesimo ha avuto in Corea una crescita fortissima, coinvolgendo un terzo dei coreani che si dichiarano in qualche modo religiosi. I cattolici sono 5,3 milioni, ovvero il 10,3% della popolazione, e sono pienamente parte di questo sviluppo tumultuoso, che mostra però anche limiti di penetrazione dei valori, di coerenza e di reale influenza sociale.
Per il missionario oblato padre Vincenzo Bordo, la cui "Casa di Anna" nella città di Seongnam da iniziativa pionieristica per affrontare le nuove povertà è diventata centro in cui convergono grandi necessità e grandi generosità, è tempo di ripensare impegno e ruolo della Chiesa nel sociale. «Nella zona ricca della città i cattolici raggiungono il 20% della popolazione, mentre nella zona povera sono appena il 6%. Perché tra i ricchi ci sono tanti cattolici e tra i poveri poche conversioni?».
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