domenica 12 maggio 2013
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Qual è la giusta paga per chi fa politica? Quanto va tagliato, quanto trattenuto per sé e quanto invece dovrebbe essere dato indietro? E, soprattutto: a chi restituire (o donare)? E perché? È bello che domande di questo tipo siano diventate oggetto di confronto. Solo fino a pochi anni fa nessuno si sarebbe sognato di porre interrogativi così importanti. Invece la crisi e la necessità di moralizzare la politica, anche abbassandone i costi, hanno permesso di aprire un dibattito sul valore del denaro e sul suo impiego da parte di chi ricopre incarichi pubblici.
In questi giorni a fare notizia è il duello tra Grillo e il premier Enrico Letta sui tagli degli stipendi dei ministri e il dibattito tutto interno al Movimento 5 Stelle su quanto tenere dei rimborsi previsti per chi è stato eletto. Il partito che fa capo all’ex comico genovese si era impegnato in campagna elettorale a lasciare ai parlamentari la sola indennità, più i rimborsi necessari e documentati della diaria. Adesso però che i soldi arrivano sul serio, ecco nascere i primi problemi. Qualcuno tra i grillini ammette di aver bisogno di più di 2.500-3.000 euro netti al mese, altri spiegano di avere famiglia, molti sostengono che a Roma con così poco non si riesce a vivere. Fermarsi a guardare i Cinque Stelle, ai quali peraltro va il merito di aver sollevato con forza il problema, sarebbe però limitante. Il punto centrale, forse, è in una frase di Mario Sberna, deputato di Scelta Civica, sposato e con 5 figli a carico, che senza troppo tergiversare ha deciso di tenere per sé solo quanto guadagnava prima di entrare in politica, 2.500 euro al mese, destinando il resto a un fondo per le famiglie bisognose. Scelta nobile, simile a quella 'silenziosa' di molti altri parlamentari, che non nasce a caso, non deriva da uno spunto demagogico, e che gli permette di calare il dito nella piaga delle tensioni grilline: 'Adesso che hanno visto 20mila euro sul conto corrente…'.
La questione è complessa, conduce a riflettere su molti aspetti della natura umana. E interpreta molti aspetti di questa crisi. Perché ci si può cibare a 'pane e casta' per anni, sparare senza distinzioni nel mucchio giudicando la politica sempre e solo irresponsabile e corrotta, si può considerare furto o spreco tutto quello che non ci aggrada o che è fuori dalle nostre prospettive e personali ambizioni. Poi, però, arrivano diverse migliaia di euro sul conto… Già. Cosa fare? Tante cose si possono fare, anche per sé e anche se si è un politico. Come finire di pagare un mutuo, aiutare un parente disabile a essere curato meglio, anche pensare di comprare un bilocale al mare o in montagna, se non lo si è mai avuto. Oppure sognare di mandare i propri figli a studiare all’estero, come molti ragazzi più fortunati, per dare loro maggiori opportunità e perché un domani possano avere qualcosa da offrire agli altri. Che male ci sarebbe in questo? E poi, ovviamente, si può scegliere di donare una parte di quanto ricevuto a una nobile causa. Certo, le cifre di cui si parla oggi sono oggettivamente eccessive, ed è bene pensare in fretta a un loro ridimensionamento. Non solo un partito, ma l’intero sistema deve riformarsi per garantire maggiore sobrietà allo Stato e alla politica, incentivando la dedizione disinteressata. Il cuore del problema non sta però nella generica e sterile opposizione al denaro in sé, quanto in una tensione serena e sincera al bene comune. Quello che conta, di un profitto – di qualunque profitto – è come questo viene realizzato e come è impiegato. I numeri hanno sempre un valore relativo: anche mille euro al mese possono essere troppi, se frutto ia una rendita non meritata o di un’estorsione. Un politico capace, onesto, e animato da vero spirito di servizio, non ha vergogna di quanto può guadagnare, non si spaventa davanti a una cifra e non ha difficoltà nel trovare una mediazione equa e sensata. Regole e codici etici sono utili, ma fragili e facilmente aggirabili in mancanza di una coscienza solidamente formata, educata al reale significato di termini come servizio, responsabilità, dono, carità. È la capacità di riferirsi a un quadro di valori solidi e condivisi che aiuta, più di tante formule, a rapportarsi correttamente a ciò che si ritiene superfluo. E a generare forti relazioni di fiducia tra elettori ed eletti – ciò che è mancato i questi anni. Eppure si trova qui, nella difficile e adulta prassi quotidiana di porre la coscienza di fronte alla realtà e alla vita vera, la differenza tra chi pensa di costruire qualcosa per il futuro e per il prossimo, e chi invece, intrappolato da uno sterile normativismo, alla prova decisiva del confronto con il denaro finisce per andare in cortocircuito. La sobrietà non si nutre di rabbia e nemmeno di indignazione, ma della naturale e serena disposizione a desiderare il bene degli altri.​
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