sabato 26 febbraio 2011
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Il 25 gennaio 2011 sono iniziate le manifestazioni contro il dittatore della Tunisia Ben Alì. Solo un mese dopo, siamo spettatori di una rivolta popolare che ha coinvolto quindici Paesi islamici del Nord Africa e del Medio Oriente: Mauritania, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Gibuti, Yemen, Giordania, Arabia Saudita, Bahrain, Kuwait, Qatar, Siria, Iran. Il 25 gennaio le manifestazioni contro il governo tunisino sembravano un fatto locale di scarsa importanza internazionale, oggi sappiamo che l’effetto domino di quella "rivoluzione" ha già coinvolto quasi tutti i Paesi arabo-islamici e l’Iran, causando il crollo di tre dittature: Tunisia, Egitto e Libia (Gheddafi sembra vicino alla fine dei suoi 42 anni di sanguinaria tirannia). Non solo, ma da questi giorni tragici e corruschi, possiamo già tentare alcune riflessioni.1) In tutta evidenza i protagonisti di queste rivolte sono stati i giovani, mossi sostanzialmente dalle ristrettezze economiche e dalla mancanza di libertà, di sviluppo, di lavoro e di giustizia nei loro Paesi. Non chiedono uno stato teocratico come l’Arabia e l’Iran, vogliono una democrazia come alla tv e in Internet vedono che esiste nei vicini Paesi europei; non hanno bruciato bandiere americane o israeliane, ma vogliono vivere in pace; non sono stati animati da spirito di odio, violenza e vendetta contro i dittatori e i loro seguaci: Gheddafi fa eccezione perché ha fatto mitragliare e bombardare i manifestanti, ma Mubarak ha potuto ritirarsi nella sua villa: i 31 anni della sua dittatura, certamente dura e oppressiva, sono finiti quasi senza spargimento di sangue!2) Nella storia dei Paesi a maggioranza musulmana è la prima volta che un movimento di popolo di queste proporzioni prende corpo e mette soprattutto in crisi l’islam politico, cioè la stretta connessione fra religione e politica fin dall’inizio. Maometto infatti era un capo religioso, politico e militare, come anche i suoi "califfi", cioè i successori del Profeta nei secoli seguenti. I giovani manifestanti non rifiutano l’islam e non sono affatto anti-cristiani. In Egitto, il Paese simbolo di questi giorni perché da sempre guida del mondo arabo-islamico, abbiamo visto le foto pubblicate da "Asia News": nella folla che occupava Piazza Tahrir cristiani e musulmani erano abbracciati e sventolavano festosamente le insegne identitarie delle loro religioni: la croce e la mezzaluna. D’altra parte, anche dalla Libia e dalla Tunisia non si segnalano assalti e violenze contro i cristiani, le loro chiese e istituzioni.3) Tutto questo non significa che il fondamentalismo islamico non esiste più, ma solo che i protagonisti delle rivoluzioni nei Paesi a sud del Mediterraneo sono giovani che chiedono democrazia, rispetto dei diritti umani, sviluppo economico, cioè società dinamiche e non bloccate, come sono sempre, o quasi sempre, quelle islamiche. Il pericolo, già segnalato, è che, terminati i giorni dell’euforia e della festa per la liberazione, la mancanza di leader politici e di partiti in sintonia con queste aspirazioni possa aprire una porta a movimenti islamisti ben organizzati e radicati sul territorio, come in Egitto i "Fratelli musulmani" e in Libia le varie Confraternite di radice tribale.4) Il problema fondamentale dell’islam è il rispetto dei diritti dell’uomo e della donna, i giovani manifestanti lo sentono e lo vivono in modo drammatico. In questi giorni è evidente che, nel difficile cammino per giungere alla meta desiderata, i popoli così vicini nel sud del Mediterraneo hanno urgenza dell’aiuto fraterno dell’Europa. Le distruzioni e i disastri economici prodotti dai sommovimenti popolari e dalle reazioni del potere, la miseria e la scarsità di strutture produttive ereditate dalle dittature non sono situazioni che favoriscono uno sviluppo democratico. L’Europa tutta, le istituzioni europee e i governi nazionali dovrebbero dare dei forti segnali di essere disposti ad aiutare con misure straordinarie questi popoli così vicini. Purtroppo, la crisi delle società europee ci rende popoli con una maggioranza di anziani e sempre meno giovani. Anche i Paesi "cristiani" sembrano paralizzati in una condizione di ricchezza economica e di miseria morale. Ma questo è un motivo in più per ritornare a Cristo, non come etichetta identitaria, ma come vita secondo il Vangelo.
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