martedì 28 settembre 2021
Le «politiche attive» devono adattarsi ai tempi e capire perché domanda e offerta faticano a incontrarsi. Non puntare solo sui Centri per l’impiego
Formazione personale e locale per aiutare a trovare lavoro

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Il dibattito sui temi del lavoro procede confusamente tra una polemica sull’obbligo del green pass per accedere alle fabbriche e agli uffici e un contenzioso di principio, anche molto radicale, sulle sorti dello smart working una volta superato il lockdown. Così rischiamo di dimenticarci i veri problemi del nostro mercato del lavoro. Certamente il tema del giusto salario. Ma soprattutto, per le inefficienze e il grave ritardo accumulato dal nostro Paese nel confronto internazionale, il nodo storico delle politiche attive del lavoro che tanto incide sulla inclusione delle fasce più vulnerabili del mercato del lavoro e sulle opportunità di ricollocazione per chi ha perso o sta per perdere il lavoro.

Di questo ultimo tema se ne parla da decenni, in ragione della necessità di rispondere con soluzioni nuove e pragmatiche alle profonde trasformazioni intervenute nell’economia e nella società. Eppure un vero e proprio sistema di accompagnamento e orientamento al lavoro non è mai stato pienamente implementato. Nell’arco di vent’anni i cambiamenti sono stati molti e oggi ci troviamo davanti a un mondo del lavoro che non è più quello del Novecento industriale, con il rischio che l’implementazione di politiche attive ancora fondate su modelli anacronistici, perché incentrate sulla ricollocazione da posto a posto, le renda vecchie in partenza. E il rischio è tanto più grande se pensiamo che il Pnrr ci consente di eliminare lo storico alibi delle risorse, invero già smascherato dai fallimenti del recente programma “Garanzia giovani”, mettendoci a disposizione un’importante quantità di finanziamenti che potrebbe allinearci alle spese dei paesi più virtuosi in materia.

Comprendere, dati alla mano, alcune delle caratteristiche del mercato del lavoro contemporaneo è quindi essenziale per costruire un sistema di politiche attive efficiente. Il primo elemento a cui guardare, spesso vittima della confusione e della retorica, riguarda il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro. Un tema molto più complesso dei singoli casi che vengono sollevati, magari all’inizio della stagione estiva. Il cosiddetto mismatch è un dato strutturale dei mercati del lavoro contemporanei dato principalmente dall’accelerazione della tecnologia che chiede profili nuovi e aggiornati che il sistema formativo fatica a costruire in tempi brevi. Questo tocca sia i giovani che devono entrare nel mercato del lavoro sia i lavoratori più maturi le cui competenze patiscono una obsolescenza molto più rapida rispetto al passato. La pandemia potrebbe aver accelerato questo processo attraverso una maggior diffusione della digitalizzazione nelle imprese di tutti i settori, generando nuova domanda che fatica ad essere colmata. I primi dati sui posti vacanti in Italia mostrano infatti un aumento arrivando alla quota (1,8%) più alta dal 2016.

Insieme al disallineamento c’è poi una riconosciuta tendenza alla flessibilità delle carriere lavorative che ha spinte sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta. Da un lato l’incertezza strutturale delle economie contemporanee, caratterizzate da forte competizione inter- nazionale e forte centralità delle preferenze dei consumatori, porta le imprese ad optare spesso per il più lungo tempo possibile a forme contrattuali temporanee o a forme di collaborazione con i lavoratori che non siano strutturate all’interno del classico rapporto di lavoro subordinato. I dati sulla ripresa economica post-pandemia che mostrano come l’aumento occupazionale dell’ultimo anno sia determinato unicamente (+573 mila) da lavoratori a termine sembra confermare questo trend. Dall’altro i lavoratori stessi, soprattutto i più giovani e quelli con più competenze, hanno maturato sempre più la consapevolezza della necessità di sviluppare un percorso lavorativo fatto di più tappe, possibilmente ascendenti. Cosa che avviene anche nell’ambito dei contratti a tempo indeterminato che, come mostrano i dati degli ultimi anni, hanno durata sempre più breve a causa delle dimissioni da parte dei lavoratori. L’insieme di disallineamento e flessibilità appare come un Giano bifronte.

Potrebbe essere una grande opportunità per lavoratori e imprese di costruire un mercato del lavoro competitivo e che valorizza e potenzia le competenze dei singoli ma potrebbe essere anche una condanna al cambiamento continuo senza una strada e senza una prospettiva chiara, alimentando quindi frustrazione e senso di solitudine e smarrimento. La chiave di tutto questo dovrebbero essere proprio le politiche attive intese però come insieme di strumenti in grado di accompagnare i lavoratori, ma anche le imprese, in questo mercato del lavoro, non in quello del secolo scorso. Per questo il primo elemento da chiarire è che le politiche attive non possono es- sere un qualcosa che scatta quando è oramai troppo tardi e cioè solo nel momento in cui le persone hanno perso un lavoro o hanno un lavoro particolarmente fragile dal punto di vista reddituale. Questo vorrebbe dire ignorare la realtà di una importante e crescente fetta di lavoratori, ma anche di chi dopo la scuola si affaccia per la prima volta nel mercato del lavoro, per i quali un vero e proprio diritto alla transizione lavorativa consentirebbe di vivere in modo completamente diverso la loro vita lavorativa.

Perché questo sia possibile occorre non solo una forte personalizzazione dei percorsi da parte dei servizi per il lavoro ma anche una loro diversificazione e pluralità inglobando le agenzie del lavoro ma anche le stesse scuole e le università oltre che le associazioni di rappresentanza del lavoro e della impresa e i loro sistemi bilaterali e tutto il terzo settore. Se già la schiera dei disoccupati presenta caratteristiche diverse difficili da contenere all’interno di profili standard, ancor di più questo è impossibile all’interno di una visione più ampia delle politiche attive. Personalizzazione che richiede non solo personale addetto ma personale altamente qualificato ed eterogeneo in grado di occuparsi delle varie dimensioni della transizione lavorativa, che sono di natura economica, sociale ma anche psicologica. Ulteriore nodo centrale è quello della territorializzazione delle politiche attive, spesso considerato un tabù a causa della grande eterogeneità dei territori italiani.

Eterogeneità che dovrebbe al contrario spingere a una maggior attenzione alle caratteristiche specifiche dei mercati del lavoro locali, anche considerata la scarsa propensione dei lavoratori italiani alla mobilità geografica. Spostare il baricentro sui territori significa costruire percorsi alla luce dei loro fabbisogni attraverso il coinvolgimento attivo di un numero di attori molto più variegato rispetto ai soli Centri per l’impiego. Ed è proprio qui che emergono non poche ombre sulla proposta recentemente avanza dal Ministro del lavoro che pare orientare le risorse disponibili proprio solo sul versante pubblico e non sulla costruzione di nuovi mercati locali del lavoro partecipati da tutti gli attori coinvolti.

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