venerdì 27 agosto 2010
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L’amministratore delegato di Fiat Sergio Marchionne sta consapevolmente cavalcando uno snodo che definire epocale non è affatto un’iperbole. Si tratta della ridefinizione e del rimodellamento di quelle che in gergo giuridico si chiamano "relazioni industriali", ad indicare cioè i rapporti fra Stato, imprese, sindacati e lavoratori. Un processo che non è esente da tensioni, da incomprensioni, da chiamate di correo e da scambi di accuse, come dimostra la vicenda dei tre licenziati di Melfi, ma che ridurre a epitome della grande trasformazione che sta avvenendo nel mondo sotto i nostri occhi sarebbe peccare di colpevole miopia. Marchionne, emigrato giovanissimo in Canada e per questa ragione abituato – dolorosamente talvolta – all’ipotesi di abbandonare abitudini e tradizioni consolidate, individua con impietosa precisione uno dei mali italiani: la paura del cambiamento, il timore di sovvertire regole e liturgie che assicurano -e lo garantiscono tuttora – il permanere delle cose nel loro immutabile statu quo. Nella ferrigna difesa dei vecchi rituali s’insinua – a volte in buona fede, altre volte con calcolata volontà di giungere allo scontro - la malcelata nostalgia di quell’epoca di aspra tensione sociale che si inaugurò nel 1969 e che prese il nome (in voga ancora oggi) di "autunno caldo", il cui esito fu da un lato la stesura dello Statuto dei lavoratori ma dall’altro lato l’insorgere di una conflittualità antagonistica le cui conseguenze si sono trascinate fino all’inizio degli anni Ottanta. E non è forse inopportuno ricordare come proprio nell’autunno del 1980, a Torino, partì quel corteo di migliaia di impiegati e quadri della Fiat che protestavano contro le forme violente e intimidatorie di picchettaggio all’interno degli stabilimenti della più grande casa automobilistica italiana, divenuto poi noto come la "marcia dei quarantamila", che portò alla sconfitta del sindacato e a una ridefinizione – non necessariamente la migliore possibile – delle relazioni industriali. Questo è ciò che abbiamo alle spalle. Domandiamoci ora quale futuro abbiamo davanti. Marchionne non ne fa mistero: la delocalizzazione è stata una delle prime inevitabili reazioni alla globalizzazione dei mercati; la difesa dell’italianità (il progetto di Fabbrica Italia, l’Alfa Romeo che non sarà in vendita) è solo una delle possibili risposte, non l’unica. Il nodo principale tuttavia resta quello di ridefinire i rapporti fra l’impresa e i lavoratori. Il modello – suggeriscono alcuni – potrebbe essere l’accordo firmato in Germania con Volkswagen dalla Ig-Metall: occupazione in cambio di garanzie sulla produttività, rinuncia ad aumenti salariali in cambio della difesa del posto di lavoro. A cui Marchionne in aggiunta ventila anche la partecipazione agli utili da parte dei lavoratori. Lo scacchiere è complesso, le opzioni sono svariate e non tutte le scelte possono rivelarsi felici. A Marchionne – che non ha mancato di riconoscere a Cisl e Uil una considerevole porzione di modernità e buon senso, ma che al tempo stesso sa di dover tendere la mano a alla Fiom e a Epifani – spetta il compito non facile di gestire questo mutamento genetico di rapporti, traghettandolo verso quel futuro industriale che per Fiat ha cominciato a schiudersi l’anno scorso con l’acquisizione di Chrysler e che sicuramente riserva altri showdown sui mercati internazionali. Il tutto con quella misura e quella saggezza che è essenziale perché il patto sociale che prima o poi deve essere riscritto sia a misura d’uomo e non soltanto di impresa. E fa ben sperare in questo senso il fatto che il "duro" Marchionne abbia colto l’invito del presidente Napolitano a riconsiderare la vicenda di Melfi al di là del semplice "punto di diritto", ricambiato dall’apprezzamento del Capo dello Stato, che non a caso sottolinea come «di fronte alle trasformazioni sul piano globale non possono sottrarsi al confronto le istituzioni e le parti sociali, nessuna esclusa». Un lungo, esasperante conflitto sociale fra capitale e lavoro, fra padroni e operai, sarebbe soltanto una pericolosa perdita di tempo.
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