sabato 28 gennaio 2012
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Al momento della tragica fine di Muhammar Gheddafi, frettolosamente (e disumanamente) giustiziato a Sirte il 20 ottobre scorso, due erano i fantasmi che si affacciavano all’orizzonte della Libia finalmente libera dopo 42 anni di dittatura e una sanguinosa guerra civile: quello dell’instabilità politica e quello del fondamentalismo religioso. Due maschere minacciose che la Libia del Rais non conosceva, stretta com’era da quasi mezzo secolo nel recinto paternalistico-carcerario che la Jamahiriya (neologismo gheddafiano incardinato sul sostantivo jamahir, che significa "masse popolari") aveva costruito attorno alle innumerevoli tribù che popolavano l’immenso territorio libico.Ma quei due spettri stavano sapientemente in attesa, pronti a insinuarsi nel vuoto di potere che sovente segue la caduta di un regime. A poco meno di un anno dall’insurrezione della Cirenaica e la nascita del Consiglio Nazionale di Transizione e a tre mesi dalla fine della guerra civile, la Libia rischia di assomigliare sempre più all’Iraq del dopo Saddam e molto poco alla nascente democrazia araba che le potenze occidentali (e in buona misura anche gli Emirati del Golfo) avevano prefigurato. Certo, il grande via vai di delegazioni commerciali, di esperti di telecomunicazioni, di broker dei contratti petroliferi, di emissari dei grandi conglomerates del cemento (italiani in testa) farebbe pensare a un Paese in grande fermento dove tutto è da ricostruire e da rimodellare. Ma basta appoggiare i piedi sulla pista dell’aeroporto internazionale di Tripoli per rendersi conto che a guardia dello scalo c’è ancora una milizia tribale, gli Zintan, mentre è ancora fresca l’eco dell’assalto di pochi giorni fa al palazzo del governo a Bengasi, che aveva visto il presidente del Cnt Jalil scappare senza onore per evitare l’ira della folla affamata, delusa, irritata per la poca trasparenza nella gestione del fiume di denaro che sta affluendo nel Paese da ogni parte del mondo. Ma più ancora della conclamata instabilità del governo provvisorio – tuttora privo di una qualunque legittimazione a livello popolare – a testimoniare la fragilità della Libia è la spropositata quantità di armi da fuoco e di ordigni tuttora nelle mani di almeno duecentomila fra miliziani, ex soldati regolari, privati cittadini. Molte di queste armi – è un rapporto dell’Onu ad affermarlo – sono già finite nelle mani delle organizzazioni fondamentaliste come i Boko Haram nigeriani o i santuari di al-Qaeda in Mauritania e nel Sahel, e stanno lentamente armando formazioni che si ispirano al più radicale degli integralismi.Nel vuoto di autorità e di poteri, non stupisce affatto l’effimera fiammata controrivoluzionaria che ha visto la cittadina di Bani Walid (roccaforte dei Warfalla, una delle ultime a cadere nella Tripolitania fedele a Gheddafi) per un paio di giorni di nuovo nelle mani di un gruppo antigovernativo. A ciò si aggiungano le pesanti accuse del Palazzo di Vetro e di organizzazioni come Medici senza Frontiere e Amnesty International (sul tema s’interroga anche il Parlamento italiano), che denunciano le continue torture ai danni delle migliaia di libici detenuti nelle carceri in quanto collaboratori del vecchio regime.Ma il problema principale – dicono concordemente gli osservatori internazionali – è quello della precaria identità del Paese: nessuna vera riconciliazione sarà possibile fino a che il mosaico di tribù, fazioni, cellule separatiste, raggruppamenti filo-monarchici, milizie e sette religiose (dove già primeggiano i Fratelli Musulmani e dietro di loro i jihadisti salafiti e l’ombra di al-Qaeda, il che ha già indotto il Cnt a promettere una Costituzione attentissima alla sharia, la legge coranica) non troverà nell’assemblea costituente promessa per giugno la propria rappresentanza. Sarà quella la prima reale prova di democrazia.
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