La comunicazione procede ormai da tempo per cicli di paure alimentate di volta in volta da un simbolo. Partendo da quest’estate si è iniziato con i «profughi invasori» delle coste italiane facendo «scoppiare il Paese». Dove li mettiamo? LGli alberghi sono pieni. Non c’è posto. Era questa la preoccupazione con cui andavano a letto gli italiani nell’ansia generata dalle immagini dei telegiornali e dal dibattito acceso da alcuni politici. Sono arrivati poi in rapida successione il «terrorista islamico», l’«obbligazione subordinata» e le «polveri sottili». Ogni ciclo di paura con il suo simbolo serve a fare notizia, ma spesso non aiuta a ragionare. Ancora peggio, come nel caso del fenomeno migratorio, quando narrazione e realtà dei fatti di cui ci dovremmo preoccupare non coincidono, con il rischio di alimentare le scelte sbagliate e suggerire risposte di politica errate. Circa il tema che ha dominato il dibattito in agosto abbiamo denunciato, sulle colonne di questo giornale, l’esistenza di una vera e propria «fabbrica della paura» alimentata anche da speculazioni politiche. Sottolineando come gli allarmi di bomba demografica erano assolutamente ingiustificati sulla base dei dati finali del 2014, quando il saldo negativo tra nati e morti degli italiani di circa 100mila unità era stato quasi compensato da quello degli arrivi degli stranieri mantenendo il totale della popolazione praticamente immutato. Ma, si diceva in quei giorni infuocati, quest’anno è differente e la marea umana alimentata dal conflitto siriano sarà ben più ampia e travolgerà tutto. Abbiamo però fatto presente in quegli stessi giorni che il nostro Paese con la sua scarsa attrattività economica era al diciottesimo posto nella lista dei Paesi per richieste di asilo dei migranti siriani e che questo dato doveva essere un segnale che molti degli sbarcati (anche quelli provenienti da altri territori) erano solo in transito e vedevano il nostro Paese solo come terra di passaggio. I dati di ieri confermano che i timori della «fabbrica della paura» erano palesemente infondati. Il demografo Blangiardo sulle colonne di questo stesso giornale ha rilevato che le dinamiche del 2015 parlano di un saldo negativo tra nati e morti italiani che aumenta, in modo preoccupante, fino a 180mila unità e di una capacità di sostituzione da parte di arrivi stranieri stabili che crolla, visto il saldo positivo tra arrivi e partenze di appena 30mila unità. L’Italia sta vivendo una gravissima crisi demografica che in parte alimenta la stessa crisi economica e finanziaria. Un Paese dove la popolazione in età da lavoro è quasi pari agli inattivi (e dove le cose non miglioreranno continuando l’attuale trend) ha innanzitutto in prospettiva un problema di sostenibilità finanziaria. È altresì arcinoto agli addetti ai lavori che la produttività dipende anche dall’età della forza lavoro e, da questo punto di vista, il declino demografico senza sostituzione di forza lavoro giovane (i nostri disoccupati ma anche i migranti), contribuisce e contribuirà alla pessima performance della produttività totale dei fattori oggetto di recente analisi Eurostat. È altresì noto che il tasso di imprenditorialità dei migranti è decisamente più elevato dei nativi, se non altro perché i primi hanno dovuto passare una durissima selezione naturale e hanno motivazioni fortissime per ripartire di slancio da zero nel Paese di destinazione. Nel quartiere in cui vivo le attività commerciali dei non italiani, spesso le più dinamiche e vivaci, sono fondamentali per dare linfa alla vita commerciale ed economica di tutta la zona. Tutto questo non significa che le politiche di immigrazione e di integrazione non debbano essere costruite con molta attenzione e cautela. Le tensioni in Nord Europa ci ricordano che i limiti dei percorsi d’integrazione possono portare notevoli problemi. Se vogliamo risolvere il grave problema demografico, ormai strutturale nel nostro Paese, le politiche sui migranti - e quelle sulla famiglia - restano però decisive. Negli anni passati la Francia con una serie di facilitazioni e agevolazioni è riuscita a riportare il tasso di natalità vicino a quello in grado di mantenere stabile la quota di popolazione (2,2 figli per donna). Noi, con 1,37 figli per donna siamo lontanissimi da quell’obiettivo. E, sul piano delle politiche familiari e delle migrazioni, faremmo bene ad attivarci per mantenere l’equilibrio demografico.