mercoledì 6 maggio 2020
Una battaglia di giustizia doverosa contro la pratica che sottrae risorse ai cittadini
Un terzo degli investimenti nelle attività europee proviene da soggetti che hanno base nei centri finanziari offshore. Limiti necessari se aumenta la spesa pubblica

Un terzo degli investimenti nelle attività europee proviene da soggetti che hanno base nei centri finanziari offshore. Limiti necessari se aumenta la spesa pubblica

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I governi dell’Unione Europea stanno facendo uno sforzo economico enorme per gestire l’emergenza sanitaria, mantenere in vita le aziende e aiutare le famiglie. Il costo delle misure nazionali ed europee che serviranno nei prossimi mesi per ricostruire l’economia sulle macerie lasciate dal lockdown sarà anche maggiore. Per quanto si ragioni sulle politiche monetarie anti-crisi della Banca centrale europea, sul potenziale del Fondo per la Ripresa o su come andrà la ripartenza dell’Italia, non si scappa da una logica inesorabile: il conto sarà gigantesco e come sempre lo pagheranno i cittadini. Quelli di oggi, con le loro tasse, e quelli di domani, chiamati a gestire un debito pubblico che quest’anno, come ha ricordato il governo nel Def appena aggiornato, raggiungerà «il livello più alto della storia repubblicana, il 155,7% del Pil». Già oggi gli interessi sul debito si mangiano ogni anno circa il 4% del Pil e tolgono all’Italia risorse che potrebbero essere usate per le scuole, gli ospedali, lo sviluppo economico.

Sarebbe una beffa insopportabile scoprire fra qualche anno che una parte dei soldi che l’Italia sta “tirando fuori” con tanta fatica invece di avere contribuito alla ripresa del Paese sono poi finiti su conti offshore nei paradisi fiscali. Non è mai stato così urgente evitare che il denaro fugga via verso qualche lido caraibico. Per molti versi il contrasto ai paradisi fiscali è anche più importante della lotta all’evasione: finché il denaro nascosto al fisco resta all’interno del “sistema” si può sempre sperare di recuperarlo. O almeno si può pensare che rientri in qualche modo nell’economia legale, per esempio quando l’evasore compra un’automobile. Ma quando è volato via non c’è più nulla da fare.

Alcuni governi europei si sono già adoperati per impedire che i fondi stanziati per l’emergenza possano arrivare a società in qualche modo legate ai paradisi fiscali. Polonia, Danimarca e Belgio hanno indicato esplicitamente nelle loro leggi di stimolo che gli aiuti non potranno andare ad aziende che sono registrate in un paradiso fiscale. Anche la Francia sembrava andare in quella direzione. «Se una grande impresa ha sede in un paradiso fiscale o una filiale senza attività economica reale in un paradiso fiscale va da sé che non beneficerà del prestito garantito dallo Stato o del differimento degli oneri» ha annunciato Bruno Le Maire, ministro delle Finanze francese, la mattina del 23 aprile. Il pomeriggio stesso, però, il passaggio della legge in cui si specificava l’esclusione di quelle aziende è stato eliminato con un emendamento approvato dalla commissione paritaria del Senato francese, che l’ha considerato «marginale».

In realtà le leggi che regolano i rapporti con quelli che chiamiamo “paradisi fiscali” sono sempre difficili da scrivere: occorre specificare che cosa si intenda precisamente per “paradiso fiscale”, stilare la lista dei Paesi “vietati”, aggiornarla e monitorare ogni flusso di capitali. Nel decreto Liquidità dell’Italia non ci sono condizioni che riguardano i paradisi fiscali, non è chiaro se il governo intenda prevedere misure di questo tipo nel prossimo decreto di stimolo e, al momento, non sono molti i parlamentari che hanno affrontato la questione.

In compenso, lo scorso aprile lo staff di Luigi Di Maio ha fatto filtrare che il governo vuole portare il tema dei paradisi fiscali in Europa. L’impressione è che speso l’argomento serva come arma politica quando i negoziati europei si scaldano: in quei casi diventa utile ricordare la doppia anima dei Paesi Bassi, ultra-rigoristi su conti pubblici e condivisione dei rischi ma ultra-lassisti su chi porta i soldi fuori dall’Ue. Quando le tensioni si raffreddano, però, Roma rimette la questione nel cassetto. Sarebbe il momento di affrontarla sul serio, considerato che i soldi pubblici messi in circolazione non sono mai stati così abbondanti.

Partiamo da una situazione che ha aspetti fin comici. I dati di Eurostat sugli “investimenti diretti esteri” in Europa mostrano che dopo Stati Uniti e Svizzera le “nazioni” che hanno il maggiore stock di investimenti nell’economia dell’Ue sono le Bermuda, l’Isola di Jersey e le Isole Cayman. Di 6.295 miliardi di euro di investimenti extra europei in Europa, 2.094 miliardi appartengono ad entità basate in uno dei quaranta Stati inclusi da Eurostat nella lista dei centri finanziari offshore. Di questi investimenti di “misteriose” entità basate nei paradisi fiscali, più di mille miliardi sono in Lussemburgo, 469 miliardi nei Paesi Bassi, 289 miliardi in Irlanda e 221 a Cipro.


Il trasferimento dei profitti all’estero genera una perdita di gettito fiscale che per l’Italia è stimata in circa il 15% del totale, quasi 6,5 miliardi ogni anno

Parliamo di “investimenti”, ma nella realtà si tratta di mero spostamento di denaro. Tre ricercatori del Fondo monetario internazionale lo scorso settembre hanno pubblicato uno studio secondo il quale circa il 40% degli “investimenti diretti esteri” sono investimenti “fantasma”, movimenti di denaro scollegati da qualsiasi attività reale, utili solo a risparmiare sulle tasse. Assieme valgono 15mila miliardi di dollari all’anno. Quasi la metà di questi investimenti fantasma sono diretti verso Lussemburgo e Paesi Bassi. Un’altra quota significativa si dirige in Irlanda. Se a questi tre Paesi dell’area euro aggiungiamo Svizzera, Hong Kong, le Isole vergini britanniche, Bermuda, Singapore, le Cayman e Mauritius si arriva all’85% degli investimenti fantasma nel mondo.

Un altro studio, pubblicato pochi giorni fa da due economisti dell’Università di Berkeley e uno dell’Università di Copenaghen, calcola che le grandi multinazionali trasferiscono ogni anno nei paradisi fiscali circa il 40% dei loro profitti. Senza questi trasferimenti di denaro le entrate fiscali dalle tasse sul reddito di imprese aumenterebbero del 15% in media in Europa e del 10% negli Stati Uniti. Nel calcolo degli economisti, basato sui dati del 2015, l’Italia perde circa il 15% del suo gettito fiscale dal reddito di impresa a causa dei trasferimenti all’estero dei profitti delle multinazionali. Sono circa 6,4 miliardi di gettito in meno. Di questi, 5,6 miliardi sono persi per "colpa" di altri Paesi dell’Ue, a partire da Lussemburgo (2,7 miliardi), Irlanda (1,5 miliardi) e Paesi Bassi (842 milioni).

Per fermare questa fuga di denaro ci sarebbe un modo piuttosto semplice: chiudere le uscite. Ad esempio vietando che un’entità basata alle Cayman o nelle Isole Vergini possa controllare quote di aziende europee. Ma ogni misura di contrasto ai paradisi fiscali viene ostacolata da un lato dai “paradisi” interni all’Unione europea e dall’altro dalle multinazionali che fanno lobbying per non perdere l’opportunità di risparmiarsi miliardi di euro di tasse. Fino ad oggi hanno sempre vinto. Tanto che se l’Eurostat, che ha responsabilità solo statistiche, ha un elenco di 40 “centri finanziari offshore”, l’Europa ha una lista nera di paradisi fiscali molto più breve: sono solo 12.

In questo momento drammatico per l’economia europea, con tanti soldi dei contribuenti da distribuire nell’economia reale, il governo italiano potrebbe finalmente pretendere da Bruxelles la serietà che serve per chiudere le troppe falle fiscali dell’Ue. In questa battaglia l’Italia potrebbe trovare anche alleati forti, a partire dalla Francia. Difficilmente il contesto per un intervento di questo tipo sarà più favorevole di quello attuale.

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