mercoledì 13 luglio 2011
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Gentile direttore,sono pensionato di un ente pubblico e quindi nella mia vita lavorativa non ho evaso le tasse. Tuttavia vorrei spezzare una lancia in difesa dei cosiddetti evasori. Per una questione di onestà occorre innanzitutto definire un criterio per confrontare un reddito da lavoro dipendente con uno da lavoro autonomo. Qualcuno afferma che considerando i rischi, il trattamento pensionistico, l’indennità di fine rapporto, perché il reddito di un lavoro autonomo sia paragonabile a quello dipendente debba essere tre volte superiore. Recentemente in una corsia di ospedale ho incontrato un signore molto anziano che mi ha confidato: «Quando ero giovane a mezzogiorno avevo già fatto otto ore di lavoro. Alle dieci di sera ne avevo aggiunte altrettante». Per una questione di giustizia sociale questo signore doveva pagare le tasse sulle otto ore o sulle sedici? Non è stato meglio per l’Italia che egli abbia investito i profitti derivanti dalle "altre" otto ore per costruire un capannone e dare lavoro ad altri operai come ha fatto nella sua lunga vita lavorativa? Ci sono poi lavoratori autonomi che svolgono la loro attività quando quelli dipendenti si divertono o si riposano. In questo caso, visto che i lavoratori dipendenti durante le festività sono giustamente retribuiti di più, per una forma di giustizia anche il reddito prodotto dagli imprenditori nelle giornate festive o nelle ore notturne non sarebbe forse opportuno avesse un trattamento fiscale agevolato? Sarebbe un giusto riconoscimento del loro lavoro, visto che la Repubblica Italiana è fondata sul lavoro.

Francesco Zanatta, Brescia

Gentile direttore,ho avuto modo di leggere l’articolo «L’evasione non è in crisi» pubblicato sul suo giornale venerdì 24 giugno 2011. Era difficile non notarlo, visti i caratteri cubitali del titolo. Purtuttavia mi permetto di farle osservare che l’informazione lì contenuta, benché frutto delle attente analisi degli amici in giubba grigia, probabilmente può fuorviare il lettore disattento, almeno sotto il profilo della cronaca. Mi riferisco al fatto che i numeri della presunta evasione scovata dalle Fiamme Gialle non sono senza dubbio quelli riportati dal suo giornale: infatti per evasione si deve intendere non solo una mera contestazione avanzata dagli organi verificatori (Agenzia delle entrate o Guardia di Finanza), bensì una contestazione che abbia retto davanti agli organi di giustizia tributaria perché, una volta che il contribuente l’abbia contestata, i giudici gli hanno dato torto. Ebbene, deve sapere che, secondo le statistiche delle magistratura tributaria, solo approssimativamente nel 40% dei casi le contestazioni dei verificatori reggono senza scalfitture alla fine del processo. Negli altri 60% dei casi o ha ragione il contribuente (40% circa) o la questione viene parzialmente accolta per entrambe le parti. Quindi io credo che il Paese debba sapere quanti soldi hanno effettivamente incassato i verificatori, non solo quanti ne hanno contestati.

Alessandro CeratiAssociazione nazionale tutela dottori commercialisti ed esperti contabiliMilano

Non c’è dubbio, l’evasione fiscale è un tema sensibile. Affrontarlo significa suscitare inevitabilmente reazioni. Le due contenute nelle lettere qui accanto sono rimaste per qualche tempo sulla mia scrivania, perché ogni volta che stavano per trovare spazio in pagina è successo qualcosa che mi ha indotto a rinviare la risposta. E non credo che ci sia bisogno di ricapitolare le questioni che nelle ultime tre settimane si sono via via aperte e proposte anche attraverso le lettere dei lettori... A Francesco Zanatta, che pure offre spunti interessanti e valide considerazioni, vorrei dire che nel suo ragionamento vedo un difetto di fondo: lo stabilire una perfetta coincidenza tra "imprenditore" ed "evasore". Certo, lui opera questa sovrapposizione per argomentare a favore di chi fa impresa, però non è ugualmente giusto. Conosco assai bene esperienze e persone legate alla piccola, alla media e alla grande impresa che non sono in alcun modo riconducibili alla categoria degli evasori fiscali. Che pure è un fenomeno imponente. C’è chi autorevolmente stima ammonti a quasi 300 miliardi di euro l’anno (115 di imposte dirette evase, 105 di economia sommersa, 40 di industria del crimine, 25 frutto di secondo o terzo lavoro). Gli agenti della Guardia di Finanza ovvero gli «amici in giubba grigia», per usare l’immagine di Alessandro Cerati, rappresentante dei dottori commercialisti dell’Andc, nel 2010 hanno scovato ricavi non dichiarati per 49 miliardi e la percentuale di "successo" dei rilievi da loro avanzati è altissima: nel triennio 2008-2010 si è stabilizzata al 93%. I dati ufficiali di cui disponiamo sono dunque piuttosto diversi da quelli indicati nella lettera. In effetti, però, le somme realmente incassate sono purtroppo molto più basse: secondo l’Agenzia delle entrate il tasso di rendimento lordo degli accertamenti è di circa l’11%, in pratica ogni dieci miliardi evasi se ne incassa un po’ più di uno. Ma questo non sminuisce l’importanza della lotta all’evasione fiscale, anzi la sottolinea. E conferma – come ho già scritto più volte – la necessità di costruire un sistema di tassazione davvero equo e, al tempo stesso, di smontare con rigore tutti quei meccanismi che hanno finito per rendere vantaggioso non pagare le imposte anche nel caso si venga scoperti. Altrimenti l’industria dell’aggiramento dei doveri fiscali continuerà a lavorare con indecorosa alacrità, facendo utili sulla pelle dei contribuenti onesti e rubando, ogni anno di più, un po’ di futuro ai nostri figli. A qualcuno, forse, sembrerà una conclusione "moralista", ma è solo il discorso di un cittadino semplice, che crede nel dovere di contribuire anche con le tasse alla costruzione di una società più giusta e che vuole bene al proprio Paese.

Marco Tarquinio

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