Il primo trattato di pace conosciuto della storia è quello siglato nel 1259 avanti Cristo tra il faraone Ramesse II e l’imperatore ittita Hattushili III, capi delle due superpotenze dell’epoca. Ce n’è giunta una stesura su tavoletta d’argilla, oggi conservata in un museo di Istanbul. In quel testo, le parti non solo ponevano fine alle ostilità, ma sancivano anche un’alleanza reciproca, con l’impegno di non attaccarsi e di aiutarsi in caso di minaccia esterna, una specie di articolo 5 della Nato. Una copia è esposta nella sede dell’Onu, a dimostrazione del fatto che, fin dall’antichità, la diplomazia e la risoluzione pacifica dei conflitti sono state vie percorse dalle società per evitare la guerra e la sopraffazione.
Una strada che si è sperato di percorre per l’Ucraina dal primo momento dell’aggressione russa, cominciata il 24 febbraio 2022, e che tuttavia non si è potuta esplorare poiché Mosca ha sempre posto condizioni inaccettabili. Se oggi gli Stati Uniti guidati da Donald Trump vogliono fare tacere le armi – obiettivo più che condivisibile – accogliendo semplicemente le richieste di Vladimir Putin e privando Volodymyr Zelensky di aiuti e intelligence per la difesa, l’accordo che ne scaturirà non sarà appeso alle pareti come documento edificante, ma entrerà nei manuali di domani come esempio di esecrabile cedimento alla prepotenza e pericoloso precedente di abdicazione alle regole del diritto internazionale.
In questi giorni cupi, l’unico soggetto che può evitare l’esito infausto per l’Ucraina martire è l’Europa che da oggi si riunisce in una delle fasi più delicate dei tempi recenti.
Riarmarsi, certo, risulta comprensibile, pure se non del tutto condivisibile in particolare nelle modalità, per essere una potenza anche militare e non solo economica, per reggere l’urto potenziale di Russia e Cina e potere dialogare se non alla pari almeno con un certo peso con l’America che si sfila di fatto dall’alleanza occidentale. Eppure, oggi la Ue, con Londra di nuovo al suo fianco sebbene sotto la pressione delle circostanze, deve prendere coscienza che c’è da fare qualcosa di più e di diverso che stanziare 800 miliardi per riempire i propri arsenali (una cifra enorme, difficilmente sopportabile se non a prezzo di un indebitamento monstre e il sacrificio delle spese sociali). I 27 Paesi più uno sono chiamati a continuare a essere quello che già idealmente sono e più ancora possono diventare: un modello di convivenza plurale ancorata a libertà, democrazia, diritti, valori e principi. Ciò che viene messo in dubbio dalle tentazioni populistico-autoritarie ora penetrate alla Casa Bianca e ormai radicate anche nel Vecchio Continente, come le recenti elezioni tedesche hanno evidenziato.
Tra le molte interpretazioni proposte della postura bellicosa di Trump e del suo circolo ristretto verso l’Europa come idea e istituzione, abbinata al favore manifestato verso le forze radicali antisistema – che si manifesterà presto con i dazi ed è già all’opera con le interferenze di Elon Musk e del vicepresidente JD Vance –, ce n’è una che suona più convincente delle altre. Davanti a una Ue divisa e incapace di agire in modo efficace, con singoli Paesi governati da partiti che si allineano alla “rivoluzione” del Maga su migranti, minoranze, ruolo delle opposizioni, espulsione del dissenso, smantellamento del welfare e della solidarietà, si ottiene un risultato tutt’altro che scontato: scompaiono le alternative credibili a questa impostazione politica. Non ci sarebbe più un contraltare concreto al progetto che il presidente repubblicano per cento minuti ha declamato l’altra notte nella sua retorica a tratti confusa davanti al Congresso americano. È solo l’inizio, ha affermato Trump, e bisogna credergli almeno su questo. Non si farà spaventare dai fallimenti, è la regola scritta nel suo libro sull’arte degli affari, né darà segni di ripensamento. Riapre i rapporti con il Cremlino perché le autocrazie non gli fanno concorrenza in casa e gli permettono di esercitare la strategia della potenza e degli affari, senza vincoli.
Per questo l’Europa non può mancare l’appuntamento, lasciare che prevalgano piccoli interessi di breve periodo, rivalità e gelosie fra leader. Deve assumere il ruolo di alfiere di quell’ordine internazionale liberale che è oggi minacciato e impegnarsi al massimo per una pace giusta in Ucraina. Come ha detto il premier Justin Trudeau nel discorso di risposta all’imposizione di tariffe sui beni canadesi, «fischieremo il suo inno anche se continuiamo ad amare il popolo americano, è la sua guida attuale che non ci piace». Non possiamo fare a meno degli Usa come alleato per tutto quello che ci unisce. Possiamo però distinguerci e marcare una distanza che illumini le differenze e dia il senso di una nostra coerenza e autonomia.
Diventi l’Europa la “casa sulla collina”, che l’America ha sempre rivendicato di rappresentare; sia il nuovo riferimento per chi cerca forme di convivenza tolleranti e accoglienti. Non può farlo restando inerme, esposta alle armate ostili straniere. Dovrà quindi dotarsi di Forze armate comuni (impresa più complessa di accumulare bombe e missili, perché implica un comando unificato e una linea condivisa). Tuttavia, il primo compito per importanza è incarnare una sostenuta progettualità ideale, politica ed economica, che conduca anche una fine della guerra in Ucraina non coincidente con la resa di Kiev a Putin prospettata dall’Amministrazione Usa. L’Italia ha un’occasione importante per essere protagonista di questo processo e non dovrebbe lasciarsela sfuggire. Farlo naufragare potrà portare qualche consenso interno, ma alla lunga non farà l’interesse nemmeno del nostro Paese.

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