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Il Parlamento Europeo a Bruxelles - .
C’è anche un’altra vittima, pur solo ideale, dell’ultimo arrivato sulla scena dei conflitti mondiali, quello fra Israele e l’Iran: stiamo parlando dei Paesi occidentali e, in particolare, dell’Europa, relegata di nuovo nel classico ruolo del vaso di coccio tra vasi di ferro.
Una condizione che sta tentando affannosamente di evitare soprattutto il presidente francese Emmanuel Macron con i colloqui da lui promossi ieri a Ginevra tra il formato E3 – Francia, Germania, Regno Unito – e il ministro degli Esteri iraniano, Araghchi.
Un tentativo di provare (almeno) a costruire una via d’uscita e una capacità di mediazione rispetto a un’Europa altrimenti esitante davanti alla voce grossa fatta sullo scenario internazionale dai “grandi attori” che minacciano conseguenze irreparabili; un’Europa quasi irrisa al G7 canadese dei giorni scorsi (trasformato di fatto in una vuota passerella abbandonata dal presidente degli Usa), non capace di far sentire le proprie istanze neanche su dossier “limitrofi”, inadatta a imbastire una rete di relazioni capace di disinnescare quelle inimicizie storiche (come quella fra il regime di Teheran e la “democrazia imperfetta” di Tel Aviv) che minano la convivenza nelle regioni non lontane dal Vecchio continente.
E, nella fattispecie, anche un’Europa in affanno nel difendere uno dei suoi rari successi diplomatici: l’accordo sul nucleare iraniano siglato a Vienna nel 2015, oggi tirato in mezzo come pretesto (a base di fake news, come precisato mercoledì dalla stessa Aiea) per l’ennesima miccia destinata a far salire la tensione nel mondo.
Quell’intesa era basata sulla cessazione delle sanzioni economiche al Paese degli ayatollah in cambio del rispetto degli impegni sull’interruzione del programma atomico a fini bellici.
Donald Trump si porta sulle spalle la grave responsabilità di aver sabotato quell’intesa sin dal 2018, nel suo primo mandato, quando pure non c’erano evidenze di un mancato rispetto da parte iraniana. I Paesi firmatari di quell’accordo (sempre Francia, Germania e Gb) e la stessa Italia, che pur avevano parzialmente cominciato a considerare nuovi investimenti nell’area iraniana, non furono in grado già allora di difendere quell’intesa e di far cambiare idea al presidente Usa, sempre instabile nelle sue giravolte fra quel che pensa Donald e quel che dice Trump.
Così, mentre il tycoon americano mostrava nei giorni scorsi che si possono prendere decisioni sulle sorti del pianeta senza avvertire il bisogno non diciamo di consultarsi (al di là delle fugaci chiacchiere su una panchina, come quelle riservate a Giorgia Meloni al G7), ma neppure di avvisare i suoi più stretti alleati (non solo europei, certo), hanno fatto un certo effetto le voci, fra loro discordanti, dei leader europei.
Ha colpito, ad esempio, sentire il cancelliere tedesco Friedrich Merz sostenere che Israele starebbe «facendo il lavoro sporco per noi», cioè anche per l’Europa, frase che gli ha attirato critiche anche in patria. O ascoltare Macron, memore – si spera – dei disastri prodotti dalla volontà di defenestrare a ogni costo il dittatore Gheddafi in quella Libia oggi ridotta a un caos tribale, affermare la sua contrarietà a un cambio di regime per mano militare (anche l’Afghanistan docet). O, ancora, sentire colei che dovrebbe essere la “ministra degli Esteri” dell’Ue, Kaja Kallas, confessare «frustrazione» per il “demansionamento” davanti all’impossibilità, a Bruxelles, di varare misure che, a suo avviso, andrebbero invece adottate per sanzionare il governo israeliano di Netanyahu.
È una storia che si ripete: priva, per la sua architettura istituzionale, di una linea comune di politica estera (e, quindi, di un ministro unitario), l’Unione Europea resta invischiata fra Stati nazionali che mantengono visioni e sfumature diverse su quale linea tenere con Israele e con gli Usa. Alla vigilia di nuovi appuntamenti delicati – il vertice della Nato che comincia martedì prossimo all’Aja e il successivo Consiglio Europeo dei leader –, l’Europa torna così agli snodi di sempre. Ai passi necessari per darsi una forza e un’autorevolezza che stenta ad avere e la cui assenza la limitano.
Sulla carta, sarebbero due le mosse da tentare. Non cessioni di sovranità, ma scatti in avanti. Il primo è il passaggio a una difesa comune, scoglio sin dal 1954 e vero antidoto al pasticciato riarmo al centro delle ultime dispute, con tanto di calcoli più alchemici che aritmetici per raggiungere un’asticella assurdamente spinta più in su (al 5% del Pil). Ancor più importante è però l’altro, di cui meno si parla ma che rappresenta un perno decisivo: e cioè la costruzione di un cospicuo bilancio comunitario degno di questo nome, ben altra cosa rispetto all’attuale che vale appena l’1 per cento della ricchezza globale prodotta dall’Unione, pari alla miseria di circa 350 euro l’anno per ciascuno di quei 430 milioni di persone che vivono nell’Ue, cento milioni più degli statunitensi.
Piuttosto che perdere tempo in infinite discussioni su come ridurre i deficit nazionali, dovremmo dedicare energie a trovare i mezzi per investire massicciamente nell’autonomia strategica dell’Unione e nelle nuove sfide industriali. Senza questi mattoni, basilari per gettare nuove fondamenta, in un mondo dove si vanno ricostituendo le logiche dei blocchi l’Europa continuerà a restare solo un gigante-nano fra i giganti veri. Senza esibire al mondo quella che sarebbe la sua ragion d’essere: dimostrare che esiste una nuova via, un modo diverso di stare in questo pianeta. Meno guerreggiato e più convivente.