martedì 2 marzo 2010
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Non è stata una giornata "senza immigrati", come pomposamente avevano annunciato gli organizzatori. La stragrande maggioranza è andata a lavorare, migliaia hanno dato vita a manifestazioni, sit-in e concerti. Ma, al di là della provocazione contenuta nello slogan, le iniziative di protesta che si sono svolte ieri in molte città hanno riproposto la centralità dei lavoratori stranieri nella società italiana, la loro irrinunciabilità sotto il profilo economico e non solo. I numeri forniscono un quadro molto indicativo: gli immigrati sono il 7 per cento della popolazione residente, producono poco meno del 10 per cento del Pil nazionale e contribuiscono in maniera significativa alle casse dell’Inps. Senza il loro contributo alcuni settori del mercato del lavoro andrebbero in crisi:  edilizia, siderurgia, ristorazione, agricoltura, pesca, zootecnia,  solo per citare i più noti. Poche settimane fa il Censis ha stimato in 1 milione e mezzo il numero delle badanti, per il 72 per cento straniere, all’opera in una famiglia su dieci. Indispensabili, dunque. Eppure trattati troppo spesso alla stregua di cittadini di serie B. Come dimostrano le ampie sacche di lavoro nero a cui molti sono costretti da imprenditori senza scrupoli - tra i quali, va peraltro ricordato, aumentano gli sfruttatori stranieri - e le inaccettabili lungaggini burocratiche legate al rinnovo dei permessi di soggiorno, che per legge dovrebbero richiedere 20 giorni mentre nella realtà arrivano a un anno. Con immaginabili conseguenze sullo stato d’animo di chi è costretto a vivere in un limbo amministrativo e in un inferno pratico, spesso alla mercè delle interpretazioni di funzionari e poliziotti.Come si vede, i motivi per protestare non mancano. Ma lo "sciopero in giallo", come è stato ribattezzato l’evento di ieri, porta con sé un equivoco di fondo: l’etnicizzazione della protesta. Come se la controparte degli immigrati fossero gli italiani in quanto tali: un’etnia contro altre etnie, un popolo contro altri popoli. Con molti rischi conseguenti: l’avvitamento in una contrapposizione sociale destinata a produrre più danni che vantaggi, alimentando il pregiudizio e allargando un fossato umano e sociale che va invece colmato; la strumentalizzazione politica della protesta, in barba al colore neutro (il giallo) che era stato scelto per caratterizzarla. E -  cosa non trascurabile per un’iniziativa che vorrebbe tutelare gli interessi dei lavoratori - l’incrinatura del rapporto col sindacato, come dimostra il rifiuto di proclamare lo sciopero da parte delle  centrali nazionali, a cui hanno fatto da contrappunto le adesioni in ordine sparso di alcune rappresentanze  territoriali o di categoria.Uno sguardo realistico e lungimirante sul Paese richiede politiche di gestione dei flussi migratori che rispondano alle necessità della nostra economia e insieme salvaguardino il mantenimento di equilibri sociali e culturali che l’Italia ha raggiunto in secoli di storia. Coniugare accoglienza e legalità è impresa ardua e di lungo periodo, che impone di rifuggire sia dal multiculturalismo senza volto, sia dalle strumentalizzazioni degli impresari della paura.L’integrazione non è una formula magica, esige un patto sociale fatto di regole chiare e condivise, diritti e doveri da promuovere e rispettare, chiede la fatica di una convivenza che va pazientemente costruita, favorendo un incontro tra identità, coniugando l’"io" e il "tu" per arrivare a concepirsi come un "nuovo noi". Se abbiamo bisogno l’uno dell’altro, evitiamo di promuovere ciò che ci divide.
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