lunedì 7 settembre 2015
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​A inizio febbraio, quando la vittoria di Alexis Tsipras era ancora fresca e le sue promesse sulla fine dell’era dell’austerità per la Grecia e per l’Europa sembravano ancora realistiche, Yanis Varoufakis, appena nominato nuovo ministro delle Finanze, era andato nelle principali capitali europee per spiegare ai colleghi che era il momento di concedere alla Grecia un prestito ponte per dare al suo governo un paio di mesi di tempo per scrivere «un nuovo contratto con l’Europa». I ministri di Italia, Regno Unito e Francia gli fecero molti auguri e gli promisero generiche aperture. Il tedesco Wolfgang Schäuble gli disse perfidamente che senza garanzie precise la Germania non avrebbe dato alla Grecia un euro in più, però poteva offrirle cinquecento esattori fiscali, visto che Atene sembrava avere qualche problema a farsi pagare le tasse. Le ironie sulle ricevute inesistenti negli hotel, nei ristoranti o nei baretti delle isole greche affollate da milioni di turisti sono state abbondanti, soprattutto nella stampa del Nord Europa, per tutta l’estate e avevano un implicito messaggio morale che si può semplificare in questo modo: se i greci non vogliono pagare le tasse e per il loro governo va bene così poi non si sorprendano se il Paese fallisce. La ramanzina è un po’ semplicistica ma ha un solido fondamento. Viste le premesse, non sorprende ma fa più impressione leggere nei risultati della nuova edizione dello studio della Commissione europea sull’evasione dell’Iva all’interno dell’Unione che l’Italia non è messa molto meglio della Grecia. Nel 2013, l’ultimo anno per cui sono a disposizione i dati, l’evasione dell’Imposta sul valore aggiunto del nostro Paese è stimata al 33,6%, contro il 34% della Grecia. In Francia l’evasione dell’Iva si ferma all’8,9%, in Germania all’11,2%, in Spagna al 16,5%. La media europea è al 16,5%. L’evasione dell’Iva in Italia è più del doppio della media europea (che è al 15,2%) e anche la Bulgaria potrebbe sentirsi in diritto di inviarci i suoi esattori fiscali, dal momento che può vantare un tasso di evasione del 17,2%. Lo studio europeo dice anche che quasi un quarto dell’Iva evasa in Europa (47 miliardi su 167) è evasa in Italia, che è anche, assieme all’Estonia, il Paese che ha visto il maggiore aumento dell’evasione tra il 2012 e il 2013. I risultati delle indagini sull’economia sommersa, che solo di recente stanno diventando un calcolo abituale per gli istituti nazionali di statistica, non danno risultati molto diversi: il sommerso vale il 21,6% del Pil italiano quando la media europea è al 15%. D’accordo, niente di così nuovo: l’evasione fiscale è uno dei grandi problemi dell’economia italiana, questo lo sapevamo già. Putroppo ce ne ricordiamo solo ogni tanto e i governi se ne ricordano con più facilità quando c’è bisogno di trovare qualche risorsa a copertura di nuova spesa pubblica, perché in quelle occasioni mettere a bilancio preventivo «maggiori incassi da evasione» è sempre una comoda scorciatoia. A Bruxelles (e soprattutto a Berlino, che è sempre più la "capitale ombra" dell’Unione) però queste quote di tasse dovute e mai riscosse ce l’hanno ben chiara in testa. Quando andiamo a chiedere alla Commissione più flessibilità sui conti pubblici così da potere allargare il passivo del bilancio dello Stato per spingere la crescita, i governanti europei potranno sempre rinfacciarci la nostra congenita incapacità di raccogliere tra noi le risorse che ci servono e ci potranno invitare a iniziare a riscuotere una quantità dignitosa delle tasse che – secondo le regole che noi stessi ci siamo dati – ci sono dovute. In altri termini: possiamo continuare a fingere che in Italia ci sia un’imposta sul valore aggiunto, quando nei fatti un terzo dell’attività economica nazionale va avanti come se questa imposta non esistesse, ma non possiamo pretendere che il resto d’Europa ci venga incontro ignorando il nostro madornale lassismo fiscale. Da storico cancro economico nazionale, l’evasione fiscale negli anni in cui l’Unione europea si sta facendo sempre più "stretta" è diventata così anche un pesante ostacolo negoziale. Un motivo in più, per il governo, per combatterla con intelligenza. Cioè senza aizzare il solito scontro tra  lavoratori dipendenti e autonomi o promettere un’inflessibilità che nei fatti lo Stato non è in grado di applicare. Si tratta, piuttosto, di avviare la costruzione di un nuovo patto tra lo Stato e i contribuenti in cui la necessaria riduzione del carico fiscale (che resta tra i più alti del mondo in rapporto al Pil) si accompagni a meccanismi che rendano più vantaggioso rispettare le regole e più pericoloso non farlo. Pretendere meno, ma pretenderlo davvero, insomma. Lo chiedono in tanti, e da anni. Il piano nazionale di riduzione delle tasse promesso da Matteo Renzi è forse una delle ultime occasioni che abbiamo per provarci, prima che esattori fiscali dall’accento teutonico minaccino di incamminarsi verso la nostra frontiera.
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