Entra l’insegnante e io dico: in piedi!
domenica 5 novembre 2017

Due notizie mi han riportato la scuola all’attenzione in questa settimana: una, enorme, lo studente che scaglia il cestino dei rifiuti contro la professoressa seduta alla cattedra, e una, microscopica, quasi invisibile, la lettera di un lettore che voleva sapere se gli studenti si alzano ancora in piedi quando entra in classe il professore. Non so come si siano concluse, o stiano per concludersi, o comunque a che punto siano, le due questioni. Non rispondo sui due fatti, non ne conosco i termini. Ma ambedue rimandano a un tema più vasto e più importante, che è il ruolo dell’insegnante nella classe, e l’importanza della disciplina nelle lezioni. Se si pensa a tutto questo, viene l’idea che la seconda notizia (alzarsi in piedi quando entra l’insegnante) contiene la prima (l’insegnante va rispettato). Obiezione: ma tutti gli insegnanti meritano rispetto? Risposta: qui scatta un principio, diciamo così, istituzionale, che nella prassi cattolica dice così: «Etiam in indigno dignitas Petri non minuitur» .

Tu non rispetti il capo come individuo, ma come capo. Non rispetti un nome e cognome, ma un ruolo. Nel caso della scuola, rispetti il ruolo dell’insegnante, perché è lui che, insegnandoti la sua materia, ti insegna a vivere. Perciò mi suona strano che qualcuno ponga la questione se gli studenti si alzano o non si alzano in piedi quando entra l’insegnante. Negli istituti, nelle magistrali, nei licei, ho sempre visto gli studenti alzarsi quando entrava il professore, e sedersi “dopo” che lui si era seduto. Solo allora cominciava la lezione. Sono rimasto sorpreso quando ho visto che non si fa così all’università. Il professore entra, da una porticina dalla quale soltanto lui può entrare, va dritto e silenzioso alla cattedra, si siede.

Tutta l’aula, già seduta, ammutolisce. La lezione comincia. Nella mia università (Padova) successe che uno studente del primo anno, una matricola, per rivolgere una domanda al professore, si alzò in piedi. Il professore sorrise: «Si sieda. Il ricordo del liceo l’ha fatta alzare. Ma al liceo eravate studenti, all’università siete studiosi». M’ha stupito e non m’ha convinto. Tra studente e professore esiste sempre una differenza di “sapere” e di ruolo, uno sa e dona il suo sapere, l’altro lo riceve e ringrazia per quel dono. Il ringraziamento si esprime con l’alzata in piedi. Nella professione d’insegnante non esiste maggiore soddisfazione che quella d’insegnare quel che ti piace, il che vuol dire studiare quel che ti piace.

A me piaceva Letteratura Italiana, da Francesco a Luzi. Non la studiavo per insegnarla, la studiavo perché mi piaceva. So che un ufficiale italiano, dopo l’8 settembre, portato in un campo di concentramento (non un lager) dai tedeschi, potendo ricevere pacchi da casa tramite la Croce Rossa, scriveva alla famiglia: «Qui si muore di fame, ma il prossimo mese nel pacco, invece di una torta, mettetemi una Divina Commedia». Lo capisco. Primo Levi racconta che un suo compagno di prigionia ad Auschwitz voleva sentire il canto di Ulisse. Lo capisco. Ecco, restiamo a Ulisse. Arriva un giorno, nel primo anno delle superiori, in cui devi spiegare Ulisse. Tu entri in classe e vai alla tua cattedra, i ragazzi si alzano in piedi. Per te? No, per quel che tu gli porti quel giorno.

Loro non sanno ancora che sarà Ulisse, però sanno che qualunque cosa tu gli porti per loro sarà una meraviglia. Ho sentito un insegnante di Matematica spiegare ai ragazzi che tra 0 e 1 i numeri che ci stanno in mezzo sono infiniti. Ho sentito un professore di Costruzioni spiegare che un aereo vola alto in aria per via della “portanza”, che non ho mai capito che cos’è. Per tutte queste ragioni, e per le infinite altre che non so, è giusto che i ragazzi si alzino in piedi quando entra in classe l’insegnante. Non lo fanno per lui. Lo fanno per sé. Spero che sia un obbligo, imposto dal Ministero con qualche circolare. Se non l’ha ancora fatto, spero che lo faccia subito.

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