sabato 31 luglio 2010
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La rottura del Popolo della libertà è un terremoto politico del quale è difficile per ora valutare appieno le conseguenze, che comunque saranno rilevanti, sul governo, sul sistema dei partiti, sulle relazioni tra di loro. Formalmente il governo e la maggioranza restano com’erano. I membri dell’esecutivo che hanno scelto di seguire Gianfranco Fini non si dimetteranno, com’era apparso in un primo momento, il che significa che l’appoggio di quest’area al governo non sarà, almeno tecnicamente, un appoggio "esterno". Non sarà però un appoggio automatico (come per la verità già non era, da molti mesi) e potrà mancare o addirittura diventare opposizione su alcuni temi cruciali, dalla giustizia al federalismo.Questa situazione spingerà, con ogni probabilità, l’esecutivo a cercare intese parziali con gruppi di opposizione, come quella che si è realizzato soprattutto con l’Udc per l’elezione dei membri laici del Consiglio superiore della magistratura, o a valorizzare apporti non contrattati ma assai utili, come quelli venuti dalla Svp e dall’Api rutelliana sulla riforma dell’università. Anche per questa via si sta disgregando il progetto di un sistema politico bipartitico, mentre si attenua anche la concezione del bipolarismo basata sull’autosufficienza, spesso esibita con una certa arroganza verbale poi smentita dai numerosi scivoloni parlamentari della maggioranza.La maggioranza di centrodestra appare oggi esplicitamente friabile, mentre le opposizioni divergono sulla soluzione da dare a un’eventuale crisi formale del governo. Il rischio maggiore è quello di una situazione di paralisi, che può essere superato solo da un clima di effettivo confronto sul merito delle scelte, che oggi nessuno può pensare di poter imporre senza una discussione e una ricerca effettiva di sintesi.Anche per quel che riguarda la struttura dei partiti pare tramontata la fase delle pure aggregazioni elettorali, tenute insieme da vincoli di pur legittima convenienza, ma prive di un effettivo radicamento organizzato. Il Popolo della libertà non potrà più essere una formazione "intermittente" perché dovrà fronteggiare – sia al centro sia sul territorio – una concorrenza che i finiani si propongono di rendere più agguerrita, così come il Partito democratico dovrà gestire in modo meno superficiale (e con nessun altezzoso sinistrismo) le differenze (e le sintesi) di cultura politica al proprio interno se vorrà reggere la concorrenza centrista, da una parte, e quella vendoliana o dipietrista dall’altra. Un sistema politico che costruiva solo l’alleanza elettorale per il rinnovo del Parlamento, per poi trascurare le relazioni politiche sulle questioni di merito, è arrivato insomma al capolinea, dimostrando la sua fragilità in modo davvero clamoroso.Pur nel rispetto delle funzioni attribuite dall’elettorato a maggioranza e minoranze, si può aprire una fase nella quale l’ascolto reciproco diventa la regola e non l’eccezione, seppure non per un ricupero di virtù ma in condizioni di necessità. In fondo è quello che, già in fasi apparentemente meno drammatiche, il Quirinale consigliava con tenacia e che la Chiesa italiana auspicava con sincera e motivata preoccupazione. Ora questa via virtuosa appare come l’unica alternativa – che richiede umiltà e responsabilità, soprattutto a chi ha la guida dell’esecutivo – alla paralisi di un governo senza maggioranza sicura o ad avventure ribaltoniste altrettanto pericolose.
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