venerdì 11 marzo 2011
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Eccolo, dunque, il testo della riforma costituzionale della giustizia che il governo sottoporrà al giudizio delle Camere. È «epocale», come l’ha definita il presidente del Consiglio, senza resistere nemmeno in questa occasione alla tentazione di battute al limite dell’autolesionismo («il pm dovrà bussare alla porta del giudice con il cappello in mano»)? È «punitiva», come sostiene l’Associazione nazionale magistrati, già pronta a proclamare l’ennesimo sciopero contro un provvedimento varato da un governo legittimamente in carica e che deve ancora essere discusso dal Parlamento eletto dagli italiani (quasi si trattasse di un qualsiasi sindacato alle prese con una vertenza per il rinnovo del contratto di lavoro o con una raffica di licenziamenti)? O è, invece, una semplice «perdita di tempo», come obietta il segretario del maggior partito di opposizione?Posto che dai 18 articoli illustrati ieri dal ministro Angelino Alfano non sembrano emergere né effettivi pericoli di sottomissione dei magistrati, giudicanti e requirenti, al potere esecutivo o legislativo (anzi, ne viene riaffermata esplicitamente l’indipendenza e l’autonomia) né norme che potrebbero tornare utili a Berlusconi nei processi in cui è imputato (è infatti esclusa l’applicazione ai procedimenti in corso), forse sarebbe il caso di chiedersi, innanzi tutto, se una riforma sia necessaria. Se la risposta fosse «no», allora dovremmo concludere: che il sistema giustizia nel nostro Paese funziona così com’è. Che dopo l’abolizione dell’immunità parlamentare nessuna procura della Repubblica ha mai "sconfinato" in termini di prerogative e di competenze. Che la sezione disciplinare del Csm si è sempre dimostrata rigorosa e inflessibile con le toghe finite al suo cospetto. Che le correnti interne alla magistratura associata non hanno mai condizionato le scelte dell’Anm e le dinamiche dello stesso Consiglio superiore. Che il rapporto tra pubblici ministeri e giudici (soprattutto per le indagini preliminari) non ha mai dato adito a sospetti – fondati o meno non spetta a noi dirlo – di "appiattimento" dei secondi sulle convinzioni dei primi. Che l’obbligatorietà dell’azione penale è oggi un principio effettivamente rispettato.Nessuno capace di un minimo di onestà intellettuale potrebbe sottoscrivere un simile elenco di affermazioni. Anche perché, altrimenti, non si capirebbe la ragione che, quattordici anni fa, indusse il Parlamento a darsi una commissione Bicamerale incaricata di riformare la Costituzione, anche per la parte relativa alla giustizia. Anzi, proprio la bozza su questa materia, messa a punto dall’esponente dei Verdi Marco Boato, riscosse un ampio consenso tra le forze politiche che formavano i poli di allora. È vero, per evitare spaccature fu necessario mettere da parte la separazione delle carriere di giudici e pm. Ma si prevedeva una marcata distinzione delle funzioni, con conseguente divisione del Csm in due sezioni. E si affidava alla legge ordinaria il compito di regolare l’obbligatorietà dell’azione penale e l’impiego della polizia giudiziaria da parte del pm, proprio come fa il ddl varato ieri dal Consiglio dei ministri. Non se ne fece nulla per diverse ragioni, non ultima la contrarietà dell’Associazione magistrati e di alcuni suoi illustri iscritti.Ora l’onorevole Massimo D’Alema, che fu presidente di quella Bicamerale, assicura che tra quel testo e quello di Alfano sussistono «differenze sostanziali», ma soprattutto chiede, come condizione per il dialogo, le dimissioni di Berlusconi. Ma forse sarebbe meglio che tutti rinunciassero per una volta a precipitosi giudizi di parte: il confronto, in Parlamento, dovrebbe essere la regola e non una condizione. Ancor più in un Parlamento dove la maggioranza non è così forte da poter coltivare il mito dell’assoluta autosufficienza ed è comunque lontana dalla possibilità di approvare, da sola, una legge costituzionale con numeri che evitino un referendum confermativo. Si perlustri, dunque, la strada, indicata dal capo dello Stato, della maggiore condivisione possibile. Si scoprano fino in fondo tutte le carte, incluse le undici leggi ordinarie di attuazione. Si metta a punto e si migliori quel che si deve e che si può. L’importante è che tutto avvenga nella massima chiarezza: gli italiani hanno diritto a giudicare una riforma così importante sui fatti, non su slogan e sterili polemiche.
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