venerdì 14 gennaio 2011
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Per comprendere nel dettaglio il senso e le ragioni della decisione presa ieri dalla Corte costituzionale sulla legge 51/2010 in materia di «legittimo impedimento» occorrerà, com’è giusto, attendere le motivazioni della stessa. Non sembra ardito, tuttavia, scorgere fin d’ora nel dispositivo un riferimento-chiave al principio di «leale collaborazione tra poteri dello Stato». La sentenza, infatti, lascia intatto, riconoscendone il pieno rispetto della Carta fondamentale della Repubblica, l’impianto complessivo della normativa. Ma dichiara illegittimi due commi del primo articolo, che rendono automatica l’accettazione, da parte del giudice, dell’impedimento addotto dai soggetti interessati: il presidente del Consiglio e i ministri. In sostanza, la Consulta dice: è giusto tutelare le delicate funzioni di chi governa, affinché non siano turbate dall’obbligo di presentarsi in un’aula di tribunale, laddove esistano precedenti impegni di natura istituzionale; allo stesso tempo, non si può sottrarre al giudice ordinario la facoltà, attribuitagli dal codice di procedura penale, di «valutare in concreto l’impedimento addotto»; soprattutto, non è conforme alla Costituzione "delegare" la Presidenza del Consiglio ad attestare quando l’impedimento sia «continuativo e correlato» alle funzioni di governo.Insigni costituzionalisti hanno ritenuto equilibrato il verdetto. Del resto, se alla vigilia la Corte era data per spaccata (8 giudici per l’incostituzionalità, 7 per il rigetto in toto dei ricorsi presentati dalla procura di Milano), mentre ieri fonti qualificate riferivano di una decisione presa con 12 "sì" e 3 "no", è evidente che la soluzione è stata ritenuta la più convincente fra quelle possibili.Fin qui le considerazioni tecnico-giuridiche, che in un Paese diverso dal nostro rischierebbero di apparire ovvie, se non addirittura superflue. Ma sarebbe ipocrita non notare che, sotto l’aspetto pratico, le cose stanno diversamente. Di fatto, la sentenza di ieri azzera le possibilità di Silvio Berlusconi di sospendere fino a ottobre (18 mesi a partire da aprile 2010, mese di entrata in vigore della legge) i tre processi che lo vedono imputato a Milano. Non a caso, l’annuncio del dispositivo è stato accolto ieri dalla consueta girandola di reazioni politiche contrapposte. Insomma, sembra attenderci l’ennesimo periodo di tensioni, scontri, polemiche. Eppure il pronunciamento della Consulta – oltre a un richiamo al citato principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato, valido per la politica come per la magistratura – potrebbe essere l’occasione per divincolarsi finalmente da un bipolarismo personalistico e inteso come conflitto, sempre e comunque.Non va dimenticato che la legge sul legittimo impedimento è stata pensata come un provvedimento "ponte": il suo secondo e ultimo articolo prevede che essa sia applicata fino all’entrata in vigore di una legge costituzionale che dia una disciplina organica alle prerogative del premier e dei ministri, incluse le modalità di partecipazione degli stessi ai processi penali, e comunque non oltre i 18 mesi. Ecco, quell’articolo, che pure era stato impugnato dai magistrati ricorrenti, è passato indenne al vaglio del "giudice delle leggi". La normativa costituzionale a cui fa riferimento era, nelle intenzioni dell’attuale maggioranza, la nuova versione del Lodo Alfano, rimasta però incagliata nelle secche parlamentari dopo la burrascosa uscita dei finiani dal Pdl. Allora, autorevoli esponenti del centrodestra e del centrosinistra avevano affermato di preferire un ritorno all’immunità parlamentare, magari declinata secondo le regole vigenti per i deputati europei.Potrebbe apparire illusorio pensare di aggregare, in questo Parlamento, i numeri per l’approvazione di una legge costituzionale. Ma una soluzione andrà pur trovata, per salvaguardare l’equilibrio istituzionale del Paese. Ed è essenziale che sia pensata al futuro, non inchiodata alle diatribe del passato e alle angustie del presente. È un interesse di tutti.
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