Ecco le "pandemie degli altri". ll Papa ce le fa capire
sabato 16 maggio 2020

Parlando della pandemia, papa Francesco ha detto che ci sono anche altre pandemie in atto nel mondo, tre: guerre, fame, non–istruzione. È vero, e fanno danni, vittime e distruzioni. Ma allora perché noi intendiamo sempre e solo la pandemia da coronavirus? Perché è la nostra, è qui, ci riguarda, e stravolge la nostra vita. La nostra pandemia è “nostra”, guerre fame e ignoranza sono pandemie degli altri. La nostra la combattiamo a casa nostra con le leggi e la scienza, le altre le combatteranno gli altri a casa loro.

C’è una gerarchia fra quelle pandemie, c’è una pandemia–madre, che genera o favorisce le altre? Le guerre generano povertà e fame, che a loro volta generano nuove guerre, in un ciclo infinito che si autoriproduce, e la mancanza d’istruzione favorisce l’incomprensione e le ostilità, quindi le guerre. Se si cerca la madre di tutti i problemi sociali che bloccano i Paesi del Terzo Mondo, la madre è la non– istruzione, la non alfabetizzazione, l’incultura, l’ignoranza. È da lì che viene il sottosviluppo. Ai tempi del ‘68 dicevamo che non esistono Paesi sottosviluppati e paesi sviluppati, ma Paesi sottosviluppati e paesi sottosviluppatori. Il sottosviluppo è un nostro prodotto, un nostro interesse. Il non– sviluppo si accompagna sempre alla non–istruzione. Quindi il maggior aiuto che possiamo dare ai Paesi arretrati è l’istruzione.

I missionari che fanno gl’insegnanti sono preziosi nei Paesi del Terzo Mondo, perché le famiglie sanno che vengono a portare quello che il loro Stato non riesce a fornire, la cultura. I terroristi si oppongono al lavoro di questi missionari, perché i giovani non alfabetizzati sono arruolabili, servono alla causa (papa Francesco dice «alla pandemia») della guerra. Combattendo la non–istruzione combatti anche la pandemia delle guerre e della fame. Questo vale nel Terzo Mondo, ma vale anche nel nostro: ho una grande stima per i maestri e i professori che vanno a insegnare nelle carceri, le carceri sono il campo di concentramento dove lo Stato detiene i nemici interni che ha catturato, ma se da nemici vuol trasformarli in amici, da combattenti in pacifici, non deve usare l’isolamento, il divieto d’incontrare i parenti o di vedere i figli, e tanto meno le armi proibite come qualche occulta bastonata, no, deve usare gli insegnanti, gli educatori. Se devono fare i rieducatori, vuol dire che la prima educazione non c’è stata o ha fallito. Proviamo con la seconda.

Gli insegnanti delle carceri sono un pilastro nella lotta contro il crimine. Ne conosco alcuni, anzi alcune, perché sono soprattutto donne, con i loro allievi riescono a fare perfino giornaletti interni, li stampano al computer, dentro ci mettono pensierini, ragionamenti, pentimenti, saluti, poesie. Andrebbero istituzionalizzati, questi insegnanti delle carceri, un carcere dovrebb’essere noto e valutato anche in base agli insegnanti che ha. Fare l’insegnante delle carceri dovrebb’essere (è) una vocazione. Come fare il medico o il missionario. Di fatto, sono medici o missionari al lavoro contro quella che papa Francesco chiama la pandemia della non–istruzione. Sono pochi, questo è il problema. Ma non è colpa loro, è colpa della società. Colpa nostra.

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