mercoledì 13 maggio 2015
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Che nel mondo della "cultura" esista un pregiudizio verso papa Francesco, ritenuto estraneo a questo mondo o comunque tale da dover essere collocato ai suoi margini, è fuor di dubbio (ne sono testimonianze le recenti polemiche apparse sulla stampa tedesca, che hanno coinvolto perfino Robert Spaemann, considerato il massimo filosofo cattolico vivente). E bene quindi ha fatto l’Università Cattolica di Milano (come ampiamente riportato da Avvenire il 7 maggio scorso) a reagire contro questo giudizio sommario, invitando alcuni dei migliori studiosi cattolici italiani a riflettere sulla "novità" del linguaggio utilizzato dal Papa e sulla difficoltà che non le masse (che hanno da subito amato papa Bergoglio), ma gli intellettuali hanno incontrato nell’ascoltarlo.Le ragioni di questo dato di fatto, che è assolutamente indubitabile, sono probabilmente diverse e vanno probabilmente ricondotte anche a una certa sofferta nostalgia di alcuni per lo stile di papa Benedetto, il Papa "teologo", lucido, calibratissimo, capace di entrare vittoriosamente in dialogo, senza alcuna arroganza confessionale, con i massimi intellettuali europei (e a volte anche con intellettuali italiani, forse non meritevoli di tanta attenzione). Nulla da obiettare nei confronti di una nostalgia "emotiva" per Benedetto XVI; molto invece da obiettare se tale nostalgia non è per l’amabilissima persona Joseph Ratzinger, ma per lo stile "teologico" impresso al suo pontificato. Va infatti richiamato all’attenzione di tutti che il primato Cristo non lo ha conferito a Giovanni (che la Chiesa orientale ha da sempre onorato con l’appellativo di «teologo»), ma a Pietro, conferendo a lui (e ai suoi successori) un mandato esplicitamente pastorale («pasci i miei agnelli»), prima che dottrinale. È evidente che l’attività pastorale presuppone l’intelligenza sia dei pastori sia delle loro pecore e che, quindi, non può non manifestarsi anche in una dimensione dottrinale, ma questa dimensione va sempre ricondotta, per dir così, e come papa Francesco non cessa di ricordare, all’interno della cornice della «pastoralità». In altre parole, il "lavoro" del pastore non è primariamente un lavoro teologico e il "lavoro" del teologo non è primariamente un lavoro pastorale: di qui il primato del Vescovo (cioè del pastore) sul teologo (cioè sull’intellettuale). Un primato che proprio il massimo dei teologi, san Tommaso d’Aquino, non ha mai smesso di difendere.Se ascoltiamo in questa prospettiva le parole di papa Francesco, certi dubbi, certe irritazioni, certe ostentate preoccupazioni (per esempio quelle concernenti il prossimo Sinodo dei Vescovi), tante nostalgie e perfino alcuni "scandali" che le sue parole e i suoi gesti hanno suscitato non possono che sciogliersi. L’ascolto che dobbiamo al Papa deve essere quello di anime che hanno bisogno di essere protette e nutrite spiritualmente (così come le pecore hanno bisogno di essere protette e alimentate da un buon pastore). Non è invece la nostra anima, ma la nostra mente a essere sollecitata dalle parole della filosofia, della teologia, dell’antropologia o di qualunque altra scienza e queste parole sono preziose quando hanno la capacità di stimolarci, di provocarci, di dilatare la nostra conoscenza.A tutte le parole che ci vengano rivolte dobbiamo prestare attenzione, da qualunque parte ci provengano: ma non dimentichiamoci mai che giungeremo alla salvezza non attraverso la conoscenza, per quanto la si possa dilatare, ma attraverso l’amore. E una parola di amore vale mille volte di più di tutte le parole raccolte in un’enciclopedia.
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