sabato 28 dicembre 2013
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Qual è la strategia migliore da seguire in momenti delicatissimi come quelli delle crisi bancarie? È questa una delle questioni cruciali più discusse all’indomani della crisi finanziaria globale in un mondo sempre più interconnesso e volatile. Tre soluzioni classiche sono quelle della liquidazione della banca fallita, del salvataggio pubblico (bail out) e del salvataggio con le risorse dei privati parte in causa nella banca fallita (bail in). La storia della Lehman Brothers ci dice che la scelta della liquidazione in presenza di grandi banche sistemiche rischia di far collassare l’intero sistema mondiale dei pagamenti, tali e tante sono le interconnessioni con gli altri attori del sistema. Sull’altra sponda il salvataggio pubblico (bail out) è oggi assai inviso e molto poco popolare perché rischia di essere l’epilogo di un sistema distributivamente iniquo dove bonus e stock options privatizzano i profitti della speculazione mentre il bail out socializza le perdite spalmandole sui contribuenti.Ci sono comunque salvataggi pubblici di successo e no. Quelli effettuati all’indomani della crisi finanziaria in Svezia nel 1992 e con il Tarp negli Stati Uniti dopo il "caso Lehman" sono stati di successo, perché lo Stato ha nazionalizzato temporaneamente acquistando assets a prezzi stracciati e ha potuto poi rivendere una volta passata tempesta dopo aver ristrutturato realizzando guadagni in conto capitale. Di minor successo interventi come quelli del Regno Unito sulla Royal Bank of Scotland, ancora oggi pubblica, piena di problemi e incapace di definire chiaramente la sua funzione obiettivo. Oggi pertanto va di moda il bail in perché si vuole evitare che tutti i contribuenti siano chiamati a scontare gli errori di una banca. Ovvero devono essere in primo luogo azionisti e obbligazionisti a pagare ed eventualmente anche i depositanti con conti al di sopra di una certa cifra (ad esempio 100mila euro). È la strada scelta dall’accordo Ue sui salvataggi bancari. Che offre però, una volta esaurito l’accesso alle risorse di chi è chiamato a rispondere in primis, altre reti di protezione costituite da fondi nazionali e in seconda battuta comunitari che le stesse banche sono chiamate a finanziare. Il fatto che si sia arrivati a un accordo va senz’altro visto positivamente perché l’Unione (Europea) fa la forza quando valorizza le sinergie degli Stati membri che si mettono assieme e non quando litiga e si impone pesi irragionevoli (come il Fiscal Compact) per mancanza di fiducia tra i membri stessi.Restano almeno tre tra insidie e limiti. La prima insidia viene ancora dalla mancanza di fiducia reciproca (che peraltro, va riconosciuto, noi italiani possiamo aver colpevolmente alimentato con i nostri comportamenti passati) che spinge i partner a diffidare dell’eccessiva esposizione dei patrimoni delle banche del Bel Paese nei confronti dei titoli di stato nazionali. Giusto chiedere ai nostri istituti di diversificare, ma esagerare nell’assegnare valutazioni di rischio eccessivo ai titoli di stato italiani finirebbe per essere masochistico e controproducente per la stessa Ue. Il secondo problema è che non è giusto chiedere ai depositanti di assumersi le loro responsabilità se non si chiude alle banche la porta all’azzardo e al trading proprietario. Se i depositanti mettono soldi in una banca che credono essere commerciale e dedita ai prestiti alla clientela e poi questa banca mette a rischio il capitale con speculazioni avventate fuori dal controllo dei depositanti stessi la colpa è della banca e non dei depositanti.La responsabilità dei depositanti in caso di fallimento non può pertanto essere disgiunta da una Volcker rule, cioè da una regola (come quella pensata dall’ex presidente della Fed, Paul Volcker,) che – è avvenuto negli Stati Uniti, nelle scorse settimane – proibisca alle banche commerciali di fare trading proprietario con i soldi altrui. L'ultimo punto fondamentale è che l’accordo europeo crea una importante rete di protezione da attivare in caso di crisi bancarie, ma non agisce alla radice dei meccanismi che ne alimentano il rischio. Il problema chiave è quello degli incentivi dei manager e dei trader. Finché questi avranno quote di partecipazione ai profitti realizzate con operazioni speculative ad alto rischio consentite (bonus e stock options) senza pagare dazio in caso di perdite generate dalle stesse operazioni (con i manager che possono abbandonare la nave che affonda con liquidazioni miliardarie) l’incentivo a prendere rischi eccessivi resterà in piedi.Abbiamo creato, dunque, una bella rete di protezione, ma continuiamo a fidarci di bolidi insicuri e altamente instabili. Mentre potremmo disporre di intermediari finanziari molto più stabili e sicuri, al servizio dei cittadini e delle imprese se solo intervenissimo sul sistema di incentivi, sui problemi delle dimensioni massime e sulla natura dei nostri istituti di credito favorendo la biodiversità bancaria.
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